Archivi categoria: Crime series

Justified- Un finale epico

Justified è un’idea della Fx nata in sordina sei anni fa. Ispirata da un racconto intitolato Fire in The Hole, scritto da Elmore Leonard, ottimo scrittore di western e polizieschi, forse uno dei migliori degli ultimi anni.

All’inizio non era chiaro dove volesse parare la serie: un agente federale dal grilletto facile e i modi all’antica, un criminale dalla parlantina sciolta e dall’ambizione sovrumana, vecchi ricordi, le montagne degli Appalachi. Poi, puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, questa serie è diventata uno dei miei appuntamenti preferiti. Non si trattava solo della storia epica di amicizia e odio tra due vecchi amici che tentavano in modi diversi di lasciarsi alle spalle il loro passato di bianchi poveri e bifolchi, ma di dialoghi brillanti e gallerie di umanità varia mai descritta in maniera superficiale, anche quando si trattava di personaggi secondari. Justified è quello che si può definire una serie cult, ovvero una serie di ottima fattura meno popolare di quello che meriterebbe. 6 stagioni di poliziesco tirate, divertenti e mai noiose. Il finale non ha tradito le aspettative, raggiungendo un climax umano, psicologico e adrenalinico che poche serie hanno potuto vantare. Justified è finito da poche settimane, fatevi un favore, appena potete guardatela, ma in lingua originale magari con i sottotitoli, il linguaggio è fondamentale.

Fatevi un altro favore, appena andate in livreria date un’occhiata ai libri di Elmore Leonard, scomparso da poco. Un ottima lettura per questa estate.

Il finale di Sons of Anarchy: i cattivi perdono sempre…

Dopo sette intense stagioni si conclude la corsa della creatura di Kurt Sutter, Sons of Anarchy. Per questa serie della FX gli aggettivi si sono sprecati, si è parlato dei Soprano in salsa biker o Amleto in motocicletta, certo si è trattata di una delle realtà drammatiche più interessanti del piccolo schermo, una scommessa vinta da Sutter e dal suo gruppo di autori e attori sui quali non molti erano disposti a scommettere all’inizio, soprattutto perché costruire una crime series partendo da una sottocultura era un progetto molto ambizioso.

ATTENZIONE SEGUONO SPOILER

Sons of Anarchy è, per ammissione dello stesso autore, un dramma di tipo amletico, e ci sono volute sette stagioni affinché il suo protagonista, Jax Teller, leader di un gruppo di motociclisti, arrivi al tragico finale in cui trae le conseguenze di una vita criminale e violenta. Proprio come nell’Amleto, il percorso di Teller sarà costellato di morti, poiché la morale è molto semplice: i cattivi perdono ed il crimine non paga. Non importa quanto umano sia il protagonista, non importa che si sforzi di fare il bene del suo MC e della sua famiglia, alla fine chi semina vento…
Jax dovrà sacrificarsi perché i suoi figli non debbano pagare per i suoi peccati e crescere lontani dall’orrore della vita a cui lui stesso non si è, pur provandoci, riuscito a sottrarre. Gemma, sua madre, in uno dei più cupi momenti finali gli dice ‘questo è quello che siamo’. Per questo Teller è costretto a sacrificarsi portando su di sé tutti i peccati della sua famiglia e del suo club motociclistico, infatti nel frattempo molte delle persone che amava hanno praticamente fatto una brutta fine, ma almeno si salva il salvabile.
Sons of Anarchy ha forse un po’ patito questa lenta discesa nel maelstrom della vendetta, in pratica l’ultima stagione è stato un lungo addio e se dobbiamo fare qualche critica allo show, dobbiamo dire che l’amore per la lentezza di Sutter ha delle volte un po’ fatto patire lo spettatore. Inoltre il cast di SOA è a volte sembrato non sempre all’altezza, con Hunnan un po’ troppo retorico che ha sempre pagato la sua faccetta poco ‘cattiva’ e una recitazione troppo sopra le righe fatta di abbracci virili e gergo da bad boys, ovviamente quanto detto non si applica ai due mostri Ron Pearlman e Katie Sagal che hanno retto un buon 50% della serie.
Sons of Anarchy rimane fra i migliori esempi di scrittura drammatica, tra l’altro ha chiuso con il miglior risultato di pubblico di sempre, andandosene col botto. Non avrà riscosso il successo di Breaking Bad e The Walking Dead, ma è lì lì, appena dietro…

La fine di Boardwalk Empire e la sindrome del Padrino

Dopo sette stagioni (forse 6 e mezza considerando che l’ultima era un po’ tronca) si è conclusa la serie prodotta e fortemente voluta da Martin Scorsese e scritta da Terence Winter. Immediatamente bollata come “I Soprano durante il proibizionismo”, Boardwalk Empire segue le vicissitudini del personaggio semi-immaginario Enoch “Nucky” Thompson, un contrabbandiere, un po’ lestofante un po’ gentiluomo, ispirato alla figura storica di Enoch Thompson, uomo politico che fece il bello e il cattivo tempo ad Atlantic City durante il proibizionismo.

La serie, come molte opere che analizzano personaggi controversi, ci regala il ritratto di un uomo che compie il male pur aspirando al bene, che non ha altre risposte se non la violenza e la corruzione ma è consapevole dei limiti delle sue scelte. Scorsese in altre parole tenta un ritratto dell’anima del potere criminale che in parte ricopia quella già monumentale del Padrino di Coppola. Il parallelismo diviene ancora più evidente poi se consideriamo che nell’ultima stagione gioca proprio con i flashback della vita di Thompson che ci spiegano come un ragazzino irlandese poverissimo sia asceso al potere e come la sua anima si sia corrotta, per arrivare ad un finale in cui, per così dire, il cerchio si chiude. Ma proprio l’esigenza di non ridurre a bianco e a nero un’analisi del genere, ha portato lo show a durare ben sette stagioni, con alti e bassi e vari archi narrativi, a volte un po’ dispersivi.

Però considerare Boardwalk Empire – L’Impero del Crimine una semplice riproposizione del mito del Padrino, che la HBO aveva già riproposto con Tony Soprano, è limitante. La serie tv di Winter ci ripropone un centinaio d’ore di affresco storico affrontato con un commovente rigore filologico, in cui accanto ai misconosciuti personaggi che muovono le ruote della trama, si affiancano i vari Al Capone, Lucky Luciano, Joseph Kennedy, J.Edgar Hoover e politici e cantanti dell’epoca che fanno di Boardwalk Empire una specie di epica moderna, il mito fondante dei nostri giorni.

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Varrebbe la pena seguire questa serie solo per la ricostruzione attenta della vita, della musica, delle usanze e dei luoghi che fedelmente ci riportano alle soglie della depressione USA. Ma oltre e tutto ciò vi è un cast dalla bravura indiscutibile che rende Boardwalk Empire uno degli esempi di qualità recitativa collettiva migliore mai visti in TV e che solo la HBO è in grado di regalare. Capitanati da un eccezionale Steve Buscemi, che ha meritatamente  vinto l’Emmy per questo ruolo nel 2011, un cast di fuoriclasse, tutti nomi sconosciuti al grandissimo pubblico ma che forniscono delle interpretazioni impressionanti. Il solo cominciare a farne una lista sembra un torto per tutti quelli che rimarrebbero esclusi. Il mio consiglio è però di vederlo in originale, tanto per farvi un esempio, Stephen Graham, attore ultra britannico che ha interpretato uno degli skinhead più credibili del cinema in This is England, che recita nell’ammerecano italianizzato di Al Capone è uno spettacolo impagabile. Buona visione a tute e tutti.

The Bridge versione US chiude (finalmente) i battenti

The Bridge versione a stelle e strisce era solo una pallida imitazione dell’originale danese/svedese Bron. Già dopo la prima stagione vi erano stati dubbi sulla scelta della FX di continuare con uno show che, onestamente non aveva né capo né coda. La trama, forzosamente cambiata per arrivare alla pruriginosità che tanto piace oltreoceano, era piena di buchi e di scelte del tutto inutili. The Bridge si dibatteva tra il whodunnit di ispirazione originaria e un tentativo di cast collettivo che però non è mai maturato. L’unica cosa che funzionava era la discreta caratterizzazione dei due protagonisti. Il poliziotto messicano passionale e con problemi familiari e la poliziotta americana con problemi relazionali, anche se i due originali interpretati da Sofia Helin e Kim Bodnia (che però ha deciso recentemente di cambiare aria) sono distanti anni luce.
Diamo atto al canale di averci provato almeno per un altro anno, ma adesso l’annuncio è definitivo, The Bridge chiuderà con il terminare della seconda stagione. I ratings sono rimasti bassi, la critica è tiepida. Addio The Bridge, noi continueremo a guardare Bron

Ecco gli originali:

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Gracepoint: un mistero in 10 puntate

Sull’onda del successo dei procedural lenti come The Killing, The Bridge, True Detective (che è un po’ un caso a parte) la Fox ha deciso di buttarsi in questo adattamento del britannico Broadchurch che si intitola Gracepoint. Non è un caso che la maggior parte di questi show sia di matrice europea, la tv americana ha una tradizione di azione e velocità nelle serie tv che mal si sposano con i tempi lunghi e dilatati di questa nuova tipologia di gialli che ha come capostipite forse Twin Peaks del maestro David Lynch (a proposito ritorna nel 2016)

Gracepoint è stato scritto dallo stesso autore di Broadchurch, Chris Chibnall, e curiosamente vede come  protagonista lo stesso David Tennant, che però è costretto ad uno strano e non sempre efficace accento americano. La storia comincia con l’assassinio di un bambino nella città eponima, un amena località costiera americana, uno di quei posti che sembrano essere immuni dal crimine. Più che esplorare l’investigazione, Gracepoint si sofferma però ad esplorare le relazioni e gli effetti della morte del bimbo nella piccola comunità. Relazioni che scaturiscono anche in tensioni fra i due detective (interpretati da Tennant e Anna Gunn) che investigano il caso.

Per i più appassionati, abbiamo letto rassicurazioni da parte della Fox che Gracepoint finirà in maniera differente rispetto a Broadchurch, quindi anche chi ha visto la serie britannica può vedere tranquillamente la sua cugina americana.

Il ritorno di Twin Peaks!

In questo inizio di stagione non avevo intenzione di postare nulla di speciale ma questa notizia ha del sensazionale e mi ha scosso dal torpore autunnale. Twin Peaks ritorna. È stato lo stesso David Lynch a dichiararlo tramite un tweet e Variety a confermarlo.
La nuova stagione sarà di nove episodi e verrà trasmessa da Showtime nel 2016. Non si tratterà di un remake o di un reboot ma, segnando il venticinquesimo anniversario dall’uscita della serie, che durò solo due stagioni, sarà ambientata ai giorni nostri. I 25 anni passati dal misterioso omicidio di Laura Palmer saranno una componente fondamentale della nuova trama. Pur non avendo mai amato la serie devo dire che vedere di nuovo al lavoro il genio visionario di David Lynch in tv sarà un’occasione da non perdere. La capacità del regista di Lost Highways, Inland Empire e Eraserhead di creare atmosfere oniriche e inquietanti (coadiuvate dalle fantastiche colonne sonore di Angelo Badalamenti) è inarrivabile, e se poi si riuscirà ad andare oltre la vaghezza della trama originaria. Rischiamo il capolavoro.

Foto: Pitchfork

Springsteen reciterà nella serie tv Lilyhammer

Lilyhammer è uno di quei piccoli gioiellini di cui si sente parlare ma che non hanno un grande ascolto. Eppure questa serie comica interpretata dal grande Steven Van Zandt è una delle più originali e godibili in circolazione.
Lilyhammer, in due parole, è la storia di questo ex mafioso italoamericano che, pentitosi, viene spedito nella piccola e apparentemente bucolica città di Lilyhammer in Norvegia. Ovviamente lo scontro e incontro di culture e ambienti così diversi diventa motore delle storie comico/noir del telefilm.
Per la terza stagione dello show prodotto da Netflix e dalla tv norvegese NRK1 , il caro Steven Van Zandt porterà in dote due suoi vecchi amici.
Il primo è Tony Sirico, con cui Van Zandt ha lavorato per molti anni nella serie tv I Soprano (era Pauley se ve ne ricordate, il più anziano della cricca di Tony Soprano), l’altro amico è il suo compagno di palco Bruce Springsteen, perché forse non ve lo ricordate ma Steven Van Zandt, in arte anche Little Steven è uno dei cuori pulsanti della mitica E-Street Band che accompagna spesso Springsteen in giro per il mondo. Sirico farà la parte di un prete, mentre Springsteen sarà il proprietario di un’agenzia funebre. Rimanete sintonizzati e speriamo di vedere Lilyhammer anche in italiano.

Foto: Deadline

Longmire cancellato dalla A&E, ma non disperiamo

Longmire è un poliziesco un po’ sui generis, ambientato nelle praterie del Wyoming, vede uno sceriffo all’antica che si ritrova ad indagare sulla morte della moglie avvenuta anni prima. Fra intrighi locali che coinvolgono la riserva indiana, fantasmi del passato e crimini da investigare Longmire è la più guardata serie tv originale di sempre del Network A&E. Eppure il canale la cancella alla fine della terza stagione con un cliffhanger fenomenale, come mai?

Apriamo subito una parentesi per quei pochissimi fan del telefilm in Italia (compreso chi vi scrive) prima che cominciate a tirare giù tutti i santi. La rete e la casa di produzione, la Warner Horizon, hanno deciso di vendere ad altri network la serie e crediamo che ci riusciranno, quindi è probabile vedere una stagione 4 di Longmire, ma su un altro canale (Netflix?).
Ma come si decide di cancellare una serie tv che è la più vista del tuo canale (e che vede come coprotagonista Katee Sackhoff)?
La prima stagione di Longmire aveva avuto una media di ben 6 milioni di spettatori che era scesa a 4 milioni e mezzo alla seconda, pur sempre un numero impressionate per la rete, e nella terza era rimasto sempre con un numero maggiore di spettatori rispetto al più visto dei suoi programmi, ovvero quell’assurdità di Duck Dinasty. Eppure la A&E lo cancella, esattamente come aveva fatto con The Glades e i motivi sembrano essere purtroppo i soliti con un paio di aggravanti in più.

Prima aggravante: Longmire piace ad un pubblico più adulto rispetto a Bates Motel e alla caterva di reality che sono il core business del network, ergo, consumatori forse più attenti e meno appetibili dei giovani.
Seconda aggravante: fare una serie originale sceneggiata costa soldi rispetto ad un reality, quindi anche se la serie è di successo e di buona qualità i margini di guadagni sono differenti da quelli soliti. Esatto, niente ambizioni, niente dignità, i capi del Network hanno dimostrato di essere poco più che ragionieri, quindi dalli di reality a base di burini del sud, sottoprodotti di best ink, NY Ink, Extreme Ink o comunque con ‘ink’ nel titolo, guerre di cementifici e repliche di serie tv comprate altrove. I capi del Network, che ha ridotto ad un solo manager la sezione ‘serie originali’, hanno dimostrato di non essere degli imprenditori della tv, ma dei ragionieri che vendono il loro miglior prodotto perché hanno improvvisamente capito che stavano facendo qualcosa di qualità e si sono spaventati.

Spero di vedere altre stagioni di Longmire su una rete che magari sappia valorizzare lo show come si deve e porti almeno alla nomination agli Emmy il suo ottimo protagonista: Robert Taylor, restate sintonizzati.

The Divide: serie legale della WEtv.

The Divide è una serie tv drammatica legale che va in onda sulla tv WE, il canale ‘femminile’ della AMC, un po’ come lo sono VH1 e Bravo.
La prima stagione della serie consta di otto episodi della durata di un’ora ciascuno. Il primo episodio stato trasmesso il16 Luglio 2014.
Christine Rosa, interpretata da Marine Ireland, che lavora come assistente presso un’organizzazione legale chiamata Innocence Initiative, si imbatte in nuove prove che potrebbero riaprire un vecchio e clamoroso caso di omicidio e salvare la vita di un possibile innocente che sta per essere giustiziato. Nel fare questo però si scontra con un Pubblico Ministero tutt’altro che tennero e, soprattutto, con una serie di meccanismi giudiziari che rivelano quanto ambigua e contorta sia la nostra società e l’amministrazione della giustizia prove. The Divide diventa pian piano una riflessione sulla moralità, l’ambizione, l’etica, la politica e la corsa nel sistema di giustizia di oggi viste attraverso gli occhi di un’appassionata assistente legale e un procuratore distrettuale ugualmente appassionato le cui opinioni variano.

Cast

Marin Ireland interpreta Christine Rosa
Paul Schneider interpreta Clark Rylance
Damon Gupton è Adam Pagina
Nia Long nel ruolo di Billie Pagina
Clarke Peters interpreta Isaia Pagina
Britne Oldford nel ruolo di Jenny Butler
Chris Bauer è Jared Bankowski
Joe Anderson è Terry Kucik
Adam Rothenberg interpreta Danny

Rain: serie tv prodotta e interpretata da Keanu Reeves

Un altro attore di Hollywood passa al piccolo schermo, e non un attore da poco: Keanu Reeves produrrà e sarà protagonista di un telefilm di azione intitolato Rain.
Rain si basa sull’omonimo personaggio John Rain protagonista dei libri di Barry Eisler.
Reeves interpreterà l’eponimo personaggio mezzo giapponese e mezzo americano specializzato in omicidi a pagamento che devono sembrare morti naturali. Rain è un outsider che non riesce ad integrarsi o ad avere relazioni umnae, l’unica identità che gli rimane è quella di essere un sicario.
Siamo ancora agli stadi iniziali della lavorazione, ma mi sembra improbabile che un telefilm con Keanu Reeves non arriverà almeno al pilota. La conferma da parte di un canale televisivo poi è un’altra cosa.
A questo punto rimane anche la riflessione del perché la tv sta attirando sempre più attori di un certo peso. Forse i ruoli interessanti sul grande schermo cominciano a scarseggiare? Oppure il fatto che ormai la tv attira spettatori e fama in quantità prima non immaginate?
La narrazione seriale è sempre più al centro delle pubblicazioni specializzate e gli eventi e premiazioni si moltiplicano. Insomma viviamo una vera e propria seconda età dell’oro delle serie tv e attori come Keanu Reeves vogliono la loro parte.