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Star Trek Picard: buone idee, esecuzione confusa

Sono sicuro che un anno e mezzo fa, alla notizia che la CBS stava richiamando alle armi Sir Patrick Stewart per proporre una nuova serie di episodi di Star Trek con lui come protagonista, tutti i fan hanno fatto i salti di gioia. Star Trek è una serie iconica e il Capitano Picard, vincendo una scommessa che molti ritenevano impossibile, è diventato un personaggio amato e importante quanto forse solo Kirk e Spock lo sono stati, aiutando al contempo a rilanciare con The Next Generation  un franchise che sembrava spacciato.

Le aspettative su Star Trek: Picard erano quindi altissime, ed a buona ragione. Oltre a Stewart, nella serie sono stati coinvolti anche alcuni “pezzi grossi” di The Next Generation: Brent Spiner (Il Comandante Data), Jonathan Frakes (Il Comandante Ryker), Marina Sirtis (Deanna Troi) e, come se non bastasse, uno dei personaggi di maggior successo di Voyager, Sette di Nove, interpretata da Jery Rian. Ma anche il fronte produzione non scherzava: oltre alla ovvia presenza di Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, creatori della “cricca” di J.J. Abrams che con lui condividono gran parte della direzione artistica e concettuale  del nuovo Star Trek, è stato arruolato anche uno scrittore del calibro di Michael Chabon (assolutamente da leggere il suo pluripremiato Le Fantastiche Avventure di Kavalier and Clay).

Poteva andare meglio… poteva anche andare peggio però…

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Ecco la premessa in sintesi: anni dopo l’addio non troppo pacifico dell’Ammiraglio Picard dalla Flotta Stellare, un fantasma del passato torna e spinge il buon vecchio protagonista, stanco e acciaccato, ad una ricerca intergalattica che, nella migliore tradizione di Star Trek, servirà sia a risolvere un conflitto potenzialmente letale per ogni forma di vita che un tormento personale del protagonista legato alla prematura fine del rapporto fra lui e Data.

Seguono moderati spoiler:

L’idea di base è quindi buona, un vecchio Comandante idealista e cocciuto che combatte per un’ideale contro tutto e tutti, ma soprattutto contro una Federazione che sembra aver smarrito la retta via della fratellanza e solidarietà tra i popoli per ritirarsi spaventata e incapace di nuove visioni. Purtroppo però l’esecuzione lascia un po’ a desiderare, il debole dei recenti padroni di Star Trek per le scene di menare, le esplosioni rumorose, la fissa per i complotti e per i colpi di scena gratuiti e a volte incomprensibili, affogano un po’ le buone idee in un miasma confuso che mette a dura prova la logica e la coerenza della trama, per cui è delle volte necessario veramente  cercare di leggersi i riassunti delle puntate precedenti per capire perché succedono alcune cose. Di conseguenza molti personaggi mancano di sostanza, le loro motivazioni non sono mai approfondite, un po’ perché non c’è mai tempo fra un gioco di prestigio e un altro, un po’ perché effettivamente gli attori che affiancano Patrick Stewart non riescono a dare spessore e non riescono a creare quella chimica fra personaggi che invece nei migliori Star Trek era stata la forza e la sostanza stessa della serie. Basta mettere a confronto ad esempio il rapporto fra Picard e Rafi (Michelle Hurd), una coppia che dovrebbe avere un passato “pesante” (ad un certo punto lei, abbastanza gratuitamente ed estemporaneamente , gli confessa persino il suo amore) e l’unica puntata, Nepenthe, in cui Ryker, Troi e Picard si ritrovano insieme, una puntata in cui, abbandonate le mosse di Kung Fu e gli effetti speciali, si esplorano la perdita, il dolore e la memoria, regalandoci un episodio che sembra uscito da uno show di un altro livello.

The End Is The Beginning

Non aiuta che i membri della ciurma dell’equipaggio che accompagna nella sua avventura Picard, nonostante il tentativo di fornire ad ognuno una specie di storia personale che li definisca, risultano spesso bidimensionali e del tutto incidentali, con continui cambi di atteggiamento che li portano a fare tutto e il contrario di tutto, fino ad arrivare all’ultima puntata in cui il MacGuffin, l’androide Soji, e in verità un po’ tutti, oscillano in costanti giravolte attitudinali e/o caratteriali. Tralascio i Romulani, opportunamente vestiti di pelle nera, che avrebbero potuto portare una certa “gravitas” ma che si riducono spesso a cattivi da operetta,  e una 7 di 9 che, pur essendo sempre un bel vedere, è costantemente ed esclusivamente in modalità film d’azione. Dimenticavo… c’è anche uno spadaccino che forse sarebbe stato più adatto al Signore degli Anelli. In particolare il trattamento offerto ai personaggi secondari mi sembra un segno incontrovertibile che la fascinazione per Guerre Stellari del gruppo di Kurtzman e soci è sempre più evidente.

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Eppure nonostante tutto ciò delle perle emergono qui e lì, come ad esempio la già citata Nepenthe, e la forza di questa serie sta proprio nell’idea fondamentalmente trekkiana, che il credere nel bene, nel coraggio di fare a scelta più scomoda e tendere la mano al prossimo sia la scelta giusta. Gli ultimi 10 minuti, specialmente una conversazione fra Data e Picard, ci regalano Star Trek ai massimi livelli, ricordandoci che essa è una serie che ci spinge ai confini immaginari dello spazio conosciuto solo  per farci guardare meglio dentro e capire il senso della nostra umanità. Peccato… questi squarci di ciò che avrebbe potuto essere lo show, e non è stato, ci fanno arrabbiare ancora di più ma ci fanno anche sperare magari in una seconda stagione (possibilissima visto come si è chiusa la prima) in cui queste potenzialità verranno finalmente espresse.

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Le migliori serie tv del 2018

E’ venuto quel momento dell’anno…

quello in cui si tirano le somme del mondo delle serie tv e si fanno le listone. Il web ne è pieno e senz’altro ce ne saranno molte e molto più autorevoli di questa.

Però se cercate un punto di vista un po’ originale e puramente basato sul gusto di chi scrive e magari sperate di scoprire una qualche gemma nascosta che vi era sfuggita, questo è il post(o) per voi. Quindi qui non ritroverete le varie Better Call Saul, This is us, Disenchantment etc. che popolano tutti i post natalizi, ma una scelta un po’ più particolare e personale.

Le serie 10 serie tv che abbiamo selezionato sono a parere nostro tutte ottime e l’ordine è puramente  numerico e non rappresenta una classifica:

The Little Drummer Girl (Florence Pugh)

The Little Drummer Girl (BBC One)

Da un capolavoro del più grande scrittori di libri di spionaggio, John Le Carré, una miniserie in 6 puntate  diretta dal regista cult coreano ParK Chan-Wook (Old Boy, Lady Vengeance). Europa fine anni ’70,  Charmian Ross è un’attrice del giro dei piccoli teatri, avendo simpatie radicali pro-palestina e una rabbia profonda inespressa, viene contattata da un gruppo del controspionaggio israeliano per infiltrarsi come ex amante del fratello di un elusivo e mitico capo della resistenza palestinese. Gadi Becker sarà il suo istruttore e il gioco della finzione si mischierà alla realtà lasciando gli attori di questa vicenda confusi e incerti sulla propria identità e le proprie lealtà. Un capolavoro di ambiguità impreziosito dall’ottima regia di ParK Chan-Wook che riesce a fondere il suo gusto cromatico senza mai tradire l’estetica da guerra fredda dei classici dello spionaggio. Un gruppo d’attori tra cui il solito e solido Alexander Skarsgård, il come sempre eccezionale Michael Shannon e un’ottima Florence Pugh, che avevamo già apprezzato in Lady Macbeth.

Seven Seconds

Seven Seconds (Netflix)

Veena Sud (The Killing, Cold Case) ci regala una versione moderna di delitto e castigo. Un poliziotto investe per sbaglio un ragazzino in bici e lo uccide, i  colleghi della sua squadra arrivano sul posto e decidono di insabbiare tutto. Questo è solo l’inizio di una discesa nel Maelstrom che porterà allo sfaldamento di relazioni, amori e amicizie e ad eventi tragici e drammatici inevitabili in una serie di dieci puntate che potremmo definire dramma procedurale. Regina King si è presa un Grammy per la sua interpretazione della madre del ragazzo morto. Seven Seconds è forse un po’ lento ma vale assolutamente la pena.

Hill House (Netflix)

Fare una serie da questo classico dell’horror (L’incubo di Hill House in inglese The Haunting of Hill House di Shirley Collins del 1959) era piuttosto difficile.  Il materiale di partenza è molto elusivo, il libro è una serie di suggestioni e incubi tutti psicologici alla Edgar Allan Poe o H. P. Lovecraft dove succede assai poco, eppure Mike Flanagan, che ha scritto e diretto la serie, riesce a inserire una trama interessante in cui la casa infestata dagli spettri diventa protagonista. La storia di Hill House è la storia di una famiglia che si reca in una imponente quanto misteriosa casa, qualcosa di terribile accadrà e i familiari superstiti pagheranno per il resto della vita: personalità distrutte, rapporti disfunzionali e nevrosi porteranno tutti sull’orlo del baratro… ma qualcosa cambia all’improvviso, la casa li reclama… La serie, pur essendo un dramma familiare, riesce sempre a mantenere l’atmosfera gotica e inquietante che si addice ad un film di fantasmi, ci sono anche un paio di jump scare niente male.  La presenza di Timothy Hutton è la testimonianza che non sempre ripescare il vecchio attore famoso e dimenticato funziona.

Atlanta (FX)

arrivata alla seconda stagione, questa serie ideata e recitata da Donald Glover (Spiderman: Homecoming, Solo: A Star Wars Story) è un animale raro e prezioso: un po’ drammatica, un po’ commedia, un po’ serie musicale. Earn, il protagonista, lascia Princeton per ragioni mai spiegate, non avendo soldi o un lavoro (era entrato a Princeton grazie ai suoi ottimi risultati scolastici ma proviene da una famiglia piuttosto modesta) decide di offrirsi come manager del cugino, un rapper che si fa chiamare “Paper Boy” e che sta riscuotendo sempre più successo. La vita non è facile, inoltre Earn ha una figlia da mantenere, ma giorno dopo giorno cerca di farsi valere in uno show business che rimane sempre ancorato a visioni razziste e stereotipate. La forza di Atlanta , oltre alla costruzione di personaggi memorabili, viene dalla capacità di scrittura eccezionale di Glover,  la sceneggiatura di alcune puntate della seconda stagione raggiunge livelli altissimi (FUBU e Woods sono veramente ammirevoli) e i personaggi man mano che vanno avanti acquistano sempre più spessore e colore. La sequenza surreale nella “frat house” vale tutta una serie:

Cobra Kai (YouTube)

Si può tornare dopo 34 anni e toccare un film di culto come Karate Kid senza sfigurare? Assolutamente sì.
Daniel è ormai un uomo di successo, vende macchine e negli spot fa ancora pesare la sua gloria passata. Johnny Lawrence, il cattivo biondo rappresentante del dojo Cobra Kai che Daniel ha sconfitto con la famosissima mossa della gru, è un fallito che beve, ha perso la famiglia e non riesce a tenere un lavoro per più di sei mesi. L’incontro fortuito tra i due riaccende una scintilla, dopo tutto sia Daniel che Johnny vivono in un passato nostalgico e glorioso. Ma il rifondare il dojo Cobra Kai per Johnny sarà un’occasione di riscatto umano e sportivo in una sfida che stavolta si presenta quasi a parti invertite. Twist nel finale di stagione che ci ha lasciati impazienti di vedere la seconda. Divertente, commovente, convincente: Strike first, Strike hard, NO MERCY!

Sharp Objects

Sharp Objects (HBO)

Una miniserie in 8 puntate che è un thriller scuro e inquietante permeato da atmosfere che un tempo si sarebbero chiamate da “gotico sudista” alla William Faulkner. Camille Preaker, interpretata da una grande Amy Adams (Big Eyes, Man of Steel) figlia di una famiglia del potente e tradizionale sud si è ormai emancipata e vive a Saint Louis facendo la giornalista. L’infanzia e l’adolescenza segnate da una madre ingombrante, la morte della sorella e abusi sessuali hanno portato Camille a compiere atti di autolesionismo e alcolismo. Tutto ritorna a galla quando viene spedita nella sua città natale nel profondo sud del Missouri agricolo, ad indagare sulla misteriosa morte di un’adolescente. Il mistero si infittirà e si intreccerà con il passato di Camille, la sua storia familiare e la storia della sua città natale, la violenza e la morte cominceranno a stringere un cappio sempre più stretto intorno alla protagonista che farà i conti con un segreto indicibile. Bellissima colonna sonora a base di Led Zeppelin.

The Terror (AMC)

The Terror è una serie che va a riempire quel vuoto lasciato da film come master and Commander. Si tratta di una serie di 10 episodi La serie è basata sul romanzo del 2007 La scomparsa dell’Erebus (The Terror) di Dan Simmons, ed è ispirata la storia vera delle navi inglesi Terror e Erebus rimaste intrappolate nei ghiacci nel tentativo di trovare il mitico passaggio a nord ovest. Così come il romanzo tenta di riempire gli aspetti non documentati e inspiegabili della scomparsa anche la serie immagina una narrativa collettiva e umana di discesa verso la consapevolezza che non vi è più scampo. Alcuni reagiranno stoicamente, altri impazziranno, altri tenteranno di rimanere aggrappati alla vita fino alla fine. The Terror funziona perché mette a nudo ritratti umani che si confrontano con una natura imponente, impenetrabile e misteriosa. Qualche tocco di gotico/horror forse un po’ forzato, ma un bellissimo racconto di avventura. Rinnovata per una seconda stagione che sarà ambientata, coerentemente con il suo spirito antologico, durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

The End of the Fucking World (Netflix)

8 puntate della durata di circa 20 minuti ciascuna. Una commedia romantica intrisa di humor nero, i due adolescenti protagonisti sono James, un sociopatico con tendenze omicide, e Alyssa, una mezza pazza instabile. Il loro incontro potenzialmente esplosivo li porta ad una specie di road trip sulla costa inglese alla ricerca del padre di lei. La ricerca è una scusa per lasciare le loro odiose e noiosissime vite, ma nella loro folie a deux si intravede uno spiraglio di logica e un’insospettabile storia d’amore. Musica e stile dirette evidentemente ad un pubblico molto giovane, ma non male anche per i più grandi.

Glow (Netflix)

Un’altra serie Netflix e un’altra serie alla seconda stagione: Glow, acronimo di Gorgeous Ladies of Wrestling. Siamo a Los Angeles nel 1985, un gruppo di attrici e lottatrici più o meno improvvisate e più o meno improbabile sta lavorando al proprio show sul wrestling femminile. la scommessa è ardita e le tensioni fra le protagoniste, le due principali hanno avuto dissapori di origine “sentimentale”, non aiutano. Trovare sponsor e pubblico è complicato, ma proprio la rivalità fra le due, sublimata dai loro alter ego sul ring, diviene una potente  dinamica narrativa che darà una forma al loro spettacolo. Una commedia che fa sorridere più che ridere e che conferma un’ottima seconda stagione dopo la già entusiasmante prima. Alison Brie spicca su tutte/i.

The Deuce (HBO)

Arrivata alla seconda stagione, ambientata 5 anni dopo la prima, questa serie non perde colpi. The Deuce è il tratto di New York della 42a strada dove dal dopoguerra fino agli anni ’80, grazie alla presenza di cinema a luci rosse e prostituzione, si crea un vero e proprio universo fatto di personaggi strambi ed eccentrici, lavoratori dell’industria del sesso, scoppiati, artisti e avventurieri vari. Nella seconda stagione si narra l’ascesa dell’industria del porno e i primi tentativi della normalizzazione dell’area. Ormai siamo in piena esplosione Disco, la seconda stagione di  The Deuce segue una galleria di personaggi, protettori, prostitute, imprenditori e mafiosi che avevamo già incontrato nella prima stagione. Candy è ormai un’affermata regista di porno e cerca attraverso questa passione il riscatto sociale e personale, Vince è un imprenditore di successo con le mani in pasta con la mafia, Lori è diventata una starlette del cinema per adulti, Abigail ha sviluppato una coscienza politica che la spinge a battersi coerentemente con i suoi ideali progressisti e femministi. New York alla fine di un’era, echi di Scorsese e dei Ramones. Se avete amato i Sopranos o Boardwalk Empire, non potete non seguire questa serie.

 

Menzione d’onore. The City & the City (BBC 2)

In verità questa è un’aggiunta fatta un paio di settimane dopo l’uscita dell’articolo perché non poteva rimanere fuori da questo post una delle serie più interessanti dell’anno, basata sul romanzo di China Mieville, scrittore britannico molto amato fra gli appassionati di letteratura weird, The City and the City è una miniserie moto ben costruito. Si tratta di un detective noir abbastanza classico, se non fosse che si svolge in una città divisa in due da antichi a misteriosi tabù, sui quali veglia una misteriosa forza di polizia. Una città divisa in due città spesso l’una accanto all’altra, che si ignorano o che si accavallano, nella quale un delitto di una giovane donna costringe l’ispettore Tyador Borlú (grandissimo David Morrissey) ad indagare e superare anni di reciproca diffidenza, un grande hard boiled in chiave fantascientifica che non deluderà.

 

 

 

 

Star Trek Discovery? Meglio The Orville.

Ora che è finita la prima stagione di Star Trek: Discovery è tempo di bilanci.

Erano anni che appassionati trekkari e non, aspettavano un ritorno sul piccolo schermo della serie iconica e finalmente CBS si è decisa a produrre uno show di 15 puntate. L’eccitazione per una nuova stagione di Star Trek  nell’epoca forse migliore della tv episodica è stata evidente sin dall’inizio, i produttori promettevano un livello narrativo all’altezza di Game of Thrones o Breaking Bad, un romanzone complesso e adulto molto ambizioso.

Devo ammettere che il fatto che Alex Kurtzman fosse fra i creatori però non prometteva benissimo, Kurtzman appartiene alla scuderia di JJ Abrahams e compagni, uno dei gruppi di sceneggiatori più sopravvalutati del momento, l’uscita anticipata dal gruppo di produttori di Byran Fuller, che decideva di dedicarsi di più ad American Gods, poi non prometteva bene.

Eppure, come migliaia di patiti di Star Trek, ho aspettato fiducioso l’inizio della serie: dopo i primi due episodi mi sono detto, “vabbé diamo tempo di carburare”, poi  dopo il mid-season finale  mi sono detto “vediamo dove vuole andare a parare”. Con il finale di stagione quelli che erano dubbi sono diventate delusioni conclamate.

Attenzione (seguono spoilier)

ST:D non è un cattivo show di fantascienza, è una serie di SF piuttosto mediocre  con buoni momenti qui e lì, ma è decisamente un pessimo show di Star Trek.

Non voglio nemmeno entrare nella polemica tra fan tradizionalisti e non, che litigano sui blog e forum da mesi sulla totale incoerenza di ambientare la storia 10 anni prima della serie originale per praticamente presentare un universo totalmente diverso da quello tradizionale. Di solito, Abrahams, Orci, Kurtzman e soci risolvono queste questioni inventandosi una dimensione alternativa, qui non si sono neanche degnati di ricorrere a questo trito trucchetto da quattro soldi (in parte…).

Il problema più grande di Star Trek: Discovery, è un altro, un’enorme superficialità di trama, tutta basata su soluzioni e colpi di scena che sembrano forzati e mai adeguatamente maturati nel corso della narrazione: un ammiraglio nel corso di una sola puntata può passare dal tentato genocidio di un pianeta ad appuntare medaglie su coloro che lo hanno sventato, con relativa sviolinata di una retorica francamente imbarazzante, per contenuti e metodo di presentazione filmica. Si può risolvere una guerra interplanetaria come niente fosse o come se non fosse mai avvenuta con un drone  e andare sul pianeta Klingon in piena guerra con nessuno che si fa problemi. Un personaggio può essere mezzo Klingon e mezzo umano senza mai farci capire effettivamente come tale fusione sia potuta accadere. Personaggi vengono uccisi ” a buffo” altri resuscitati a forza grazie a… indovinate… gli universi alternativi. In generale la tempistica e lo sviluppo della narrazione sembrano sempre goffi e rallentati in  alcuni punti per poi essere frettolosamente chiusi in altri. Fra esplosioni e colpi di scena sembra di stare in un film di Michael Bay che dura 15 ore.

Klingon????

L’altro grande problema relativo alla serie, sembra la scarsa profondità di caratterizzazione dei personaggi. Di solito la tecnica è quella di caratterizzarli fortemente i primi 10 minuti che vengono presentati al pubblico, e poi ogni coerenza tende a sfilacciarsi per adattarsi a qualsiasi situazione gli sceneggiatori abbiano inventato, questo vale per Sarek, che alla fine dello show sorride, tocca e scherza con la sua figlioccia come un umano qualsiasi oppure per la cadetta Silvia Tilly, che alla 4 puntata forse dimentica di avere disturbi di personalità e diventa una specie di simpatica nerd al college e, a parte Saru (l’unico personaggio con un certo spessore), dimenticate il tradizionale approccio collettivo alla narrazione, pieno di sottotrame e caratterizzazioni dei personaggi “minori”, questo Star Trek: Discovery non ha tempo per questo, è troppo impegnato a sconfiggere Imperi in universi alternativi nel giro di tre puntate, viaggiare nello spazio tempo con fantomatiche spore in due puntate e vincere guerre galattiche in una.

Infine, poi onestamente Sonequa Martin-Green non è che sia il massimo della recitazione, quando in particolare (in lingua originale) comincia a bisbigliare invece di parlare l’ammazzerei con la Bath-Leth. Nel cast, gli unici degni di nota mi sembrano Doug Jones e Rainn Wilson (nei panni di Harry Mudd, l’unico bagliore di luce in un panorama narrativo molto grigio).

Un gruppo di produttori mediocri e senza idee si è praticamente appropriato con l’inganno di una nave della Federazione, cercando di convincerci che la modernità e il futuro sono più stupidi e superficiali del presente, esattamente il contrario di tutto ciò che l’universo di Star Trek ha sempre rappresentato. Francamente se avete voglia di Star Trek guardate The Orville, una vera e propria lezione di scrittura intelligente e non presuntuosa.

American Gods: una recensione controcorrente

Tutti sembrano pazzi per lo show American Gods della Starz, ma non tutto sembra funzionare bene nella serie ispirata al celebre libro di Neil Gaiman.

Non voglio neanche stare a paragonare il libro con la serie. Il romanzo di Neil Gaiman fu un unicum quando uscì, la sua vena ironica, il mix di cultura pop e miti religiosi comparati, ma soprattutto l’originale rappresentazione umana e fruibile degli dei alla base del libro (e di molti dei suoi lavori sin dai tempi di Sandman), ne decretarono il successo e diedero un aspetto più cool e hipster al romanzo fantasy. In seguito, forse questo mix è stato usato e abusato, da lui ed altri, diventando una formula un po’ stantia…Ma questo è un altro medium e un’altra storia.

La serie Starz American Gods viene recensita in termini entusiastici un po’ dappertutto, specialmente da quella stampa e da quei blog specializzati e appassionati del genere, mentre altri giornali più mainstream, come il New York Times per esempio, forse con una base di lettura con meno fanboys e fangirls, ne hanno colto alcuni elementi interessanti e critici.

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Quello che notiamo se prendiamo in considerazione la serie tv sola, tenendo a bada l’ammirazione per il lavoro di Gaiman, è che la storia è un mix che non sempre si capisce dove vuole parare e fra digressioni e scene spesso totalmente gratuite, fatte più per compiacere l’occhio che per funzioni narrative, prende forma solo alla fine della prima stagione.

Shadow Moon è un carattere scialbo, Odino/Mercoledì avrebbe avuto bisogno di un attore molto più carismatico del pur volenteroso Ian McShane, i personaggi più interessati sono personaggi secondari, come Laura Moon (se si riesce a perdonare l’espressività da selfie instagram di Emily Browning) e il Leprecauno dell’ottimo Pablo Schreiber. Ovviamente questo porta alle lunghe digressioni sulla loro ‘backstory’ cha a tratti hanno un po’ fatto perdere il filo del discorso. Inutile dire che, essendo una serie Starz, vi è spesso violenza e nudità gratuita più da Grinderhouse movie tarantiniano che altro, ed un utilizzo della musica sempre a contrasto che dopo un po’ stucca.

Il Dio della tecnologia, nel libro è grasso, ma alla Starz è vietato essere grassi
Il Dio della tecnologia, nel libro è grasso, ma alla Starz è vietato essere grassi!

Eppure i segnali di qualche difficoltà a trovare il bandolo narrativo c’erano tutti, lo show ha subito una lunghissima gestazione con diversi cambi allo script e inizialmente doveva essere HBO, il nostro prima articolo a riguardo risale addirittura al 2011. Certo non era un compito facile quello di Bryan Fuller e Michael Green, il libro è un cult e ha un’atmosfera difficile da cogliere, ma verso la fine della stagione si è cominciata a vedere una certa coerenza e si spera che la Starz non voglia strafare tirandola per le lunghe e concluda l’arco narrativo in massimo tre stagioni. Del resto l’universo di American Gods può essere sfruttato per molte side stories come ha dimostrato lo stesso Neil Gaiman publicando ad esempio The Monarch of the Glen in Fragile Things. La possibilità di spinoff c’è tutta, che ne pensate?

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Lista dei vincitori tv dei Golden Globes 2015

Eccoci di nuovo qui con i Golden Globes che confermano una vocazione più “filmica” rispetto ai Grammy, un po’ forse più attendibili per quel che riguarda le serie tv.

BEST TELEVISION SERIES – DRAMA

The Affair
Showtime
Showtime Presents, Sheleg, Higlewater

BEST TELEVISION SERIES – COMEDY OR MUSICAL

Transparent
Amazon
Amazon Studios Instant Video

BEST MINISERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION
Fargo
FX
FX Productions & MGM Television


BEST PERFORMANCE BY AN ACTRESS IN A MINI-SERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION

Maggie Gyllenhaal
The Honorable Woman

BEST PERFORMANCE BY AN ACTOR IN A TELEVISION SERIES – DRAMA

Kevin Spacey
House Of Cards

BEST PERFORMANCE BY AN ACTOR IN A TELEVISION SERIES – COMEDY OR MUSICAL

Jeffrey Tambor
Transparent

BEST PERFORMANCE BY AN ACTRESS IN A TELEVISION SERIES – DRAMA

Ruth Wilson
The Affair

BEST PERFORMANCE BY AN ACTOR IN A SUPPORTING ROLE IN A SERIES, MINISERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION

Matt Bomer
The Normal Heart

BEST PERFORMANCE BY AN ACTRESS IN A SUPPORTING ROLE IN A SERIES, MINISERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION

Joanne Froggatt
Downton Abbey

BEST MINISERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION

Fargo
FX, FX Productions & MGM Television

BEST PERFORMANCE BY AN ACTOR IN A MINI-SERIES OR MOTION PICTURE MADE FOR TELEVISION

Billy Bob Thornton
Fargo

BEST PERFORMANCE BY AN ACTRESS IN A TELEVISION SERIES – COMEDY OR MUSICAL

Gina Rodriguez
Jane The Virgin

Morto Ken Weatherwax – Pugsley della Famiglia Addams

Ken Weatherwax, l’attore che interpretò il piccolo Pugsley Addams nella serie tv degli anni ‘60 è morto all’età di 59 anni per un attacco cardiaco.

Weatherwax veniva da una famiglia di attori consumati e piuttosto influenti negli anni ’50. La zia era Ruby Keeler e suo fratello aveva girato le prime tre stagioni di Lassie. Nella vita, dopo la Famiglia Addams, Ken si arruolò nell’esercito e, tornato civile, fece qualche doppiaggio un po’ di pubblicità e lavorò come cameraman. Saltava fuori qui e lì alle convention o alle premier horror di film di serie B.

Si sarebbe meritato di più, se non come attore, almeno come simbolo di una dei più importanti franchise dell’orrore in tv.
RIP Pugsley.
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La fine di Boardwalk Empire e la sindrome del Padrino

Dopo sette stagioni (forse 6 e mezza considerando che l’ultima era un po’ tronca) si è conclusa la serie prodotta e fortemente voluta da Martin Scorsese e scritta da Terence Winter. Immediatamente bollata come “I Soprano durante il proibizionismo”, Boardwalk Empire segue le vicissitudini del personaggio semi-immaginario Enoch “Nucky” Thompson, un contrabbandiere, un po’ lestofante un po’ gentiluomo, ispirato alla figura storica di Enoch Thompson, uomo politico che fece il bello e il cattivo tempo ad Atlantic City durante il proibizionismo.

La serie, come molte opere che analizzano personaggi controversi, ci regala il ritratto di un uomo che compie il male pur aspirando al bene, che non ha altre risposte se non la violenza e la corruzione ma è consapevole dei limiti delle sue scelte. Scorsese in altre parole tenta un ritratto dell’anima del potere criminale che in parte ricopia quella già monumentale del Padrino di Coppola. Il parallelismo diviene ancora più evidente poi se consideriamo che nell’ultima stagione gioca proprio con i flashback della vita di Thompson che ci spiegano come un ragazzino irlandese poverissimo sia asceso al potere e come la sua anima si sia corrotta, per arrivare ad un finale in cui, per così dire, il cerchio si chiude. Ma proprio l’esigenza di non ridurre a bianco e a nero un’analisi del genere, ha portato lo show a durare ben sette stagioni, con alti e bassi e vari archi narrativi, a volte un po’ dispersivi.

Però considerare Boardwalk Empire – L’Impero del Crimine una semplice riproposizione del mito del Padrino, che la HBO aveva già riproposto con Tony Soprano, è limitante. La serie tv di Winter ci ripropone un centinaio d’ore di affresco storico affrontato con un commovente rigore filologico, in cui accanto ai misconosciuti personaggi che muovono le ruote della trama, si affiancano i vari Al Capone, Lucky Luciano, Joseph Kennedy, J.Edgar Hoover e politici e cantanti dell’epoca che fanno di Boardwalk Empire una specie di epica moderna, il mito fondante dei nostri giorni.

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Varrebbe la pena seguire questa serie solo per la ricostruzione attenta della vita, della musica, delle usanze e dei luoghi che fedelmente ci riportano alle soglie della depressione USA. Ma oltre e tutto ciò vi è un cast dalla bravura indiscutibile che rende Boardwalk Empire uno degli esempi di qualità recitativa collettiva migliore mai visti in TV e che solo la HBO è in grado di regalare. Capitanati da un eccezionale Steve Buscemi, che ha meritatamente  vinto l’Emmy per questo ruolo nel 2011, un cast di fuoriclasse, tutti nomi sconosciuti al grandissimo pubblico ma che forniscono delle interpretazioni impressionanti. Il solo cominciare a farne una lista sembra un torto per tutti quelli che rimarrebbero esclusi. Il mio consiglio è però di vederlo in originale, tanto per farvi un esempio, Stephen Graham, attore ultra britannico che ha interpretato uno degli skinhead più credibili del cinema in This is England, che recita nell’ammerecano italianizzato di Al Capone è uno spettacolo impagabile. Buona visione a tute e tutti.

Lucca Comics e serie tv: qualcosa sta cambiando?

Molti miei amici appassionati di fumetti e serie tv , hanno sempre lamentato l’assenza in Italia di qualcosa anche lontanamente paragonabile ai vari Comic-Con americani, soprattutto quello più celebre di San Diego, diventato con il passare degli anni una vera e propria tappa obbligata di attori e produzioni di serie tv d’oltreoceano, tanto da vedere alcune serie (come per esempio Sons of Anarchy) produrre dei fumetti ispirati allo show in modo da poter imbucarsi come panel.

In Italia, i nostri vari appuntamenti simili (che poi sono Lucca Comics and Games e Romics) sono ancora saldamente legati al mondo dei fumetti (manga e italiani principalmente) e poco agli show televisivi. Ma qualcosa sta cambiando. È giunto qualche giorno fa in redazione un invito ad un incontro ad un panel su Continuum che si terrà durante il Lucca Comics il primo novembre alle ore 12.00 con un momento dedicato ai fan dello show, che potranno incontrare Victor Webster, il Detective Carlos Fonnegra nella serie, presso l’auditorium San Giuseppe per una sessione di autografi e photo opportunity. Alle 15.00 presso il Cinema Centrale avrà luogo poi l’anteprima assoluta della terza stagione di Continuum, introdotta dallo stesso Webster, che infine incontrerà la stampa alle 16.30 presso Palazzo Orsetti.

Non è la prima volta che la manifestazione toscana si occupa di serie tv e film per “fanboy”, anche quest’anno ci saranno panels dedicati a Gotham e al film Guardians of the Galaxy che ha sbaragliato i botteghini a stelle e strisce ma che in Italia è inspiegabilmente arrivato in sordina, come se non fosse una megaproduzione Marvel (mah… poi fra 10 anni lo definiranno film cult in qualche programma in terza serata).

Quest’anno però, anche grazie all’interessamento del canale AXN  che trasmette Continuum in esclusiva, avremo un vero e proprio panel con tanto di attore di una serie tv sci-fi e “meet and greet” con i fan. Certo, con tutto il rispetto, Webster non è Tricia Helfer, ma è un buon inizio, magari se siamo fortunati gli anni prossimi questi eventi si moltiplicheranno e potremmo anche noi avere un piccolo Comic-Con nazionale.

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Il Vampira Show: una goth story sul Sunset Boulevard

Era il 30 aprile 1954, a mezzanotte sul Channel 7 della KABC, una tv che trasmetteva nella zona di Los Angeles, una donna pallida, magra, dal fascino macabro e sensuale e dalle lunghe e minacciose unghie dipinte di nero avanzava fra la nebbia in un corridoio buio e coperto di ragnatele. La figura minacciosa, altera  e inquietante quasi scivolava verso la telecamera, lanciando un urlo agghiacciante, era l’inizio del Vampira Show (titolo alternativo Dig Me Later, Vampira). Ma era per la storia della tv  l’inizio di un mito fondante che ebbe tante incarnazioni, mentre per Maila Nurmi, l’attrice che interpretava Vampira, fu invece l’inizio di una storia tipica del Sunset Boulevard degli anni ’50…

Con le sue assurde misure, 91-43-91, Maila Nurmi, ex ballerina burlesque, aspirante attrice e modella, si proponeva come una “Greta Garbo Gotica” e ogni settimana presentava un suo show fatto di B-movies, horror e tanta sci-fi di pessima qualità, in altre parole il paradiso per ogni cinefilo che adori il pulp. Era il 1954, finì in poco tempo sulla copertina di Life, …e poi?

Figlia di emigranti finlandesi, Maila Nurmi fuggi a Hollywood a soli 17 anni, il suo sogno ovviamente era fare l’attrice. Cominciò a lavorare come spogliarellista, danzatrice esotica, modella softcore e pin-up per l’illustratore Alberto Vargas, lo stesso percorso obbligato che attrici come Marilyn Monroe e Mamie Van Doren finirono col fare poco dopo. Nel 1944 fu scritturata a Broadway per due opere teatrali di Michael Todd, Catherine Was Great e Spook Scandals. Nella prima, che debuttò il 2 agosto 1944, fu ben presto estromessa dalla protagonista, Mae West, che temeva di essere messa in ombra (fonte wikipedia). Nell’horror-show Spook Scandals, in cui apparve per la prima volta nei panni di una dark lady che usciva urlante da una bara, fu notata dal famoso regista Howard Hawks che la riportò a Los Angeles col progetto di girare l’adattamento cinematografico del romanzo horror Dreadful Hollow (al quale avrebbe collaborato anche William Faulkner). Il film però non fu purtropo mai realizzato. Con l’aiuto del marito Dean Riesner, poi divenuto sceneggiatore di numerosi film per il cinema e la televisione tra i quali Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, Chi ucciderà Charley Varrick?, Brivido nella notte, Maila sviluppa sempre più il personaggio di Vampira, una gothic sex lady che esprime però le prime pulsioni più oscure di un’America che nel dopoguerra appare felice e spensierata. Il matrimono con Riesner, e la relativa stabilità economica, le permettono di fare lavori che la portano a contatto con il jetset eccentrico ed esclusivo di Hollywood.

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La svolta arriva all’annuale Bal Caribe Masquerade del coreografo Lester Horton (famoso per il lavoro svolto nel Tarzan degli anni ’30), al quale si presenta con un costume ispirato a un personaggio dei fumetti di Charles Addams… proprio quelli che su cui si baserà anni più tardi la Famiglia Addams, pubblicati sul periodico The New Yorker. La sua maschera, nonostante il caleidoscopio di Drag, artisti di avanguardia e creativi di LA (qualcuno chiamava il giro di Horton la “mafia gay” di Hollywood) vince il primo premio e attira l’attenzione del produttore televisivo Hunt Stromberg, Jr. che, avendo sul groppone una miriade di B-Movies e non sapendo come commercializzarli, le affida il ruolo di presentatrice per una rassegna di film horror sulla rete di KABC. Era nato The Vampira Show, uno show antesignano di format antologici a tema horror presentati da una figura inquietante, ma soprattutto che lanciava la figura della Vampira Sexy che rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo e che tutt’oggi imperversa, ahimè a volte anche troppo, in ogni festa di Halloween da New York a Roccasecca.

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Nurmi aveva creato una prima versione di Vampira, una creatura prototipo con lunghi capelli neri e un abito nero da cocktail, da varie ispirazioni cinematografiche, soprattutto da figure come Caroline Borland in Mark of the Vampire e un po’ Gloria Holden in Figlia di Dracula. Ma anche dalle attrici noir del cinema muto e dalla sua esperienza circense e burlesque.

Lo show diviene un succcesso immediato, niente così si era mai visto prima. La Nurmi comincia ad apparire in spettacoli a fianco di Lon Chaney Jr. e Bela Lugosi. Frequenta James Dean e il suo entourage al mitico ristorante Googie, uno dei pochi punti aperti a tarda notte nel 1950 a Hollywood. Diviene parte de “La ronda di notte”, un gruppo di aspiranti attori e registi che aleggiavano intorno Dean, il ragazzo strano e affascinante dell’Indiana che stava per raggiungere la status di superstar grazie a  Gioventù Bruciata.

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una proto Vampira e James Dean

Tutto sembra andare per il meglio, gli ascolti sono altissimi, il programma e amatissimo e Vampira finisce sulle copertine delle principali riviste.

Ma poi un fulmine a ciel sereno: la rete cancella lo show. Troppe polemiche legate alla sua figura inquietante, una campagna stampa che associa la frequentazione della Murni alla morte di Dean, diverse cause legali contro la stessa Murni e, il colpo di grazia, il divorzio da Reisner. La rete aveva giocato molto sulla starlet inquietante di notte ma felicemente sposata e casalinga di giorno, cercando di vendere Vampira come un semplice gioco di eccentrico travestimento e così smussando gli aspetti più destrutturanti del personaggio, la fine del matrimonio con Reisner era anche la fine di questo gioco. Vampira non esiste più.

Alla fine degli anni ’50 Maila torna a vivere con la madre mentre riceve l’indennità di disoccupazione. Appare in Plan 9 from Outer Space di Ed Wood che però non ha quasi pubblico (anche se diventa un film culto anni più tardi grazie a Tim Burton). La leggenda vuole che partecipi a film porno e che abbia gravi problemi psicologici. Ciò non è vero: pur non tornando a livelli di fama precedente, apre una piccola boutique negli anni ’60 a West Hollywood dove diviene una leggenda locale, nel suo negozio di prodotti artigianali ,ceramiche dipinte da lei stessa, circolano vari ex star e starlette del Boulevard che potrebbero tranquillamente aver ispirato il Rocky Horror Picture Show. Muore nel 2008 alla rispettabile età di 76 anni.

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Forse questo è tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere della sua storia. Forse è più o meno tutto ciò che può essere conosciuto. E’ vero però che la sua influenza si è diffusa in lungo e in largo. Non ci sono cosplayer, feste di Halloween, film sui vampiri che non debbano riconoscere a Vampira una royalty in quanto archetipo assoluto.

Vampira prese in prestito da molti dei fantasmi che infestavano la cultura americana, elementi mai prima riuniti con il suo peculiare tipo di energia sessuale e l’atteggiamento di sfida all’america della middle class che fu di Dean e di Brando. Lei stessa descriveva il suo personaggio come un prodotto degli elementi della storia americana, dei terrori della grande depressione e dello stile della beat generation. Una grande figura ed una tipica storia di decadenza e fallimento della Hollywood degli anni ’50 che potrebbe stare benissimo su un libro di Bukowski o di Nathaniel West.

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Fonti: Vampira: Dark Goddess of Horror di W. Scott Poole. Wikipedia. Boing Boing

 

Rain: serie tv prodotta e interpretata da Keanu Reeves

Un altro attore di Hollywood passa al piccolo schermo, e non un attore da poco: Keanu Reeves produrrà e sarà protagonista di un telefilm di azione intitolato Rain.
Rain si basa sull’omonimo personaggio John Rain protagonista dei libri di Barry Eisler.
Reeves interpreterà l’eponimo personaggio mezzo giapponese e mezzo americano specializzato in omicidi a pagamento che devono sembrare morti naturali. Rain è un outsider che non riesce ad integrarsi o ad avere relazioni umnae, l’unica identità che gli rimane è quella di essere un sicario.
Siamo ancora agli stadi iniziali della lavorazione, ma mi sembra improbabile che un telefilm con Keanu Reeves non arriverà almeno al pilota. La conferma da parte di un canale televisivo poi è un’altra cosa.
A questo punto rimane anche la riflessione del perché la tv sta attirando sempre più attori di un certo peso. Forse i ruoli interessanti sul grande schermo cominciano a scarseggiare? Oppure il fatto che ormai la tv attira spettatori e fama in quantità prima non immaginate?
La narrazione seriale è sempre più al centro delle pubblicazioni specializzate e gli eventi e premiazioni si moltiplicano. Insomma viviamo una vera e propria seconda età dell’oro delle serie tv e attori come Keanu Reeves vogliono la loro parte.