Cursed, Re Artù in salsa Disney

Sembra davvero difficile andare a toccare il ciclo arturiano in maniera decente, i pochi ad esservi riusciti decentemente sono la miniserie Le Nebbie di Avalon, forte di attrici del calibro di Anjelica Houston e Julianna Margulies e del materiale di origine, il romanzo omonimo di Marion Zimmer Bradley che forse è il romanzo definitivo per gli amanti del ciclo leggendario su Re Artù e i cavalieri della tavola Rotonda, Excalibur, nonostante i suoi difetti di scrittura, l’Ultima Legione (che riprende il mito di un Artù romano) e ovviamente I Monthy Python che invece ne hanno offerto una rilettura parodistica e dissacrante. Tutti gli altri hanno, a parere di chi scrive, mancato il bersaglio, e francamente Cursed non fa eccezione.

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CURSED (L TO R) KATHERINE LANGFORD come NIMUE, Bella… sembra vera.

Cursed segue Nimue, colei che diventerà La Dama del Lago, e le sue peripezie nel mondo storico-fantastico della Britannia post-romana. La serie si basa sul fumetto del più sopravvalutato degli scrittori contemporanei, ovvero Frank Miller, che dopo aver rovinato Sparta si è impegnato a banalizzare anche questo periodo storico.

E’ se è vero che la storia è una reinterpretazione della leggenda arturiana e che quindi non importa se molti dei protagonisti che nella leggenda dovrebbero occupare spazi ed ere differenti (Uther dovrebbe essere il padre di Artù, Nimue di una generazione precedente etc.) sono qui coevi e coetanei in allegro assembramento, il risultato lascia perplessi: la leggenda viene rimaneggiata pesantemente, il contesto destoricizzato, i costumi e le scenografie sono più adatte a Disneyworld che ad un film e il modo di recitare degli attori sembra uscire diritto diritto da un fiera di rievocazione medievale.

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Artù che invita Nimue al Ballo di Fine Anno

Insomma invece di evocare i secoli misteriosi precedenti la formazione dell’Inghilterra qui siamo davanti ad un potpourri fantasy un po’ kitsch che stiamo vedendo sempre più su Netflix che punta probabilmente più al pubblico pre-adolescenziale che, nonostante Miller, a quello adulto, lo stesso tentativo fatto con The Witcher.

Se vi piace il fantasy il nostro consiglio è quindi rivedervi The Witcher, oppure se volte condividerlo con i vostri figli… rivedetevi Merlin, è molto meglio e non ha pretese.

Star Trek Picard: buone idee, esecuzione confusa

Sono sicuro che un anno e mezzo fa, alla notizia che la CBS stava richiamando alle armi Sir Patrick Stewart per proporre una nuova serie di episodi di Star Trek con lui come protagonista, tutti i fan hanno fatto i salti di gioia. Star Trek è una serie iconica e il Capitano Picard, vincendo una scommessa che molti ritenevano impossibile, è diventato un personaggio amato e importante quanto forse solo Kirk e Spock lo sono stati, aiutando al contempo a rilanciare con The Next Generation  un franchise che sembrava spacciato.

Le aspettative su Star Trek: Picard erano quindi altissime, ed a buona ragione. Oltre a Stewart, nella serie sono stati coinvolti anche alcuni “pezzi grossi” di The Next Generation: Brent Spiner (Il Comandante Data), Jonathan Frakes (Il Comandante Ryker), Marina Sirtis (Deanna Troi) e, come se non bastasse, uno dei personaggi di maggior successo di Voyager, Sette di Nove, interpretata da Jery Rian. Ma anche il fronte produzione non scherzava: oltre alla ovvia presenza di Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, creatori della “cricca” di J.J. Abrams che con lui condividono gran parte della direzione artistica e concettuale  del nuovo Star Trek, è stato arruolato anche uno scrittore del calibro di Michael Chabon (assolutamente da leggere il suo pluripremiato Le Fantastiche Avventure di Kavalier and Clay).

Poteva andare meglio… poteva anche andare peggio però…

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Ecco la premessa in sintesi: anni dopo l’addio non troppo pacifico dell’Ammiraglio Picard dalla Flotta Stellare, un fantasma del passato torna e spinge il buon vecchio protagonista, stanco e acciaccato, ad una ricerca intergalattica che, nella migliore tradizione di Star Trek, servirà sia a risolvere un conflitto potenzialmente letale per ogni forma di vita che un tormento personale del protagonista legato alla prematura fine del rapporto fra lui e Data.

Seguono moderati spoiler:

L’idea di base è quindi buona, un vecchio Comandante idealista e cocciuto che combatte per un’ideale contro tutto e tutti, ma soprattutto contro una Federazione che sembra aver smarrito la retta via della fratellanza e solidarietà tra i popoli per ritirarsi spaventata e incapace di nuove visioni. Purtroppo però l’esecuzione lascia un po’ a desiderare, il debole dei recenti padroni di Star Trek per le scene di menare, le esplosioni rumorose, la fissa per i complotti e per i colpi di scena gratuiti e a volte incomprensibili, affogano un po’ le buone idee in un miasma confuso che mette a dura prova la logica e la coerenza della trama, per cui è delle volte necessario veramente  cercare di leggersi i riassunti delle puntate precedenti per capire perché succedono alcune cose. Di conseguenza molti personaggi mancano di sostanza, le loro motivazioni non sono mai approfondite, un po’ perché non c’è mai tempo fra un gioco di prestigio e un altro, un po’ perché effettivamente gli attori che affiancano Patrick Stewart non riescono a dare spessore e non riescono a creare quella chimica fra personaggi che invece nei migliori Star Trek era stata la forza e la sostanza stessa della serie. Basta mettere a confronto ad esempio il rapporto fra Picard e Rafi (Michelle Hurd), una coppia che dovrebbe avere un passato “pesante” (ad un certo punto lei, abbastanza gratuitamente ed estemporaneamente , gli confessa persino il suo amore) e l’unica puntata, Nepenthe, in cui Ryker, Troi e Picard si ritrovano insieme, una puntata in cui, abbandonate le mosse di Kung Fu e gli effetti speciali, si esplorano la perdita, il dolore e la memoria, regalandoci un episodio che sembra uscito da uno show di un altro livello.

The End Is The Beginning

Non aiuta che i membri della ciurma dell’equipaggio che accompagna nella sua avventura Picard, nonostante il tentativo di fornire ad ognuno una specie di storia personale che li definisca, risultano spesso bidimensionali e del tutto incidentali, con continui cambi di atteggiamento che li portano a fare tutto e il contrario di tutto, fino ad arrivare all’ultima puntata in cui il MacGuffin, l’androide Soji, e in verità un po’ tutti, oscillano in costanti giravolte attitudinali e/o caratteriali. Tralascio i Romulani, opportunamente vestiti di pelle nera, che avrebbero potuto portare una certa “gravitas” ma che si riducono spesso a cattivi da operetta,  e una 7 di 9 che, pur essendo sempre un bel vedere, è costantemente ed esclusivamente in modalità film d’azione. Dimenticavo… c’è anche uno spadaccino che forse sarebbe stato più adatto al Signore degli Anelli. In particolare il trattamento offerto ai personaggi secondari mi sembra un segno incontrovertibile che la fascinazione per Guerre Stellari del gruppo di Kurtzman e soci è sempre più evidente.

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Eppure nonostante tutto ciò delle perle emergono qui e lì, come ad esempio la già citata Nepenthe, e la forza di questa serie sta proprio nell’idea fondamentalmente trekkiana, che il credere nel bene, nel coraggio di fare a scelta più scomoda e tendere la mano al prossimo sia la scelta giusta. Gli ultimi 10 minuti, specialmente una conversazione fra Data e Picard, ci regalano Star Trek ai massimi livelli, ricordandoci che essa è una serie che ci spinge ai confini immaginari dello spazio conosciuto solo  per farci guardare meglio dentro e capire il senso della nostra umanità. Peccato… questi squarci di ciò che avrebbe potuto essere lo show, e non è stato, ci fanno arrabbiare ancora di più ma ci fanno anche sperare magari in una seconda stagione (possibilissima visto come si è chiusa la prima) in cui queste potenzialità verranno finalmente espresse.

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L'”Ispettore Barnaby” e l’eredità del folk horror

Con il successo di Midsommar, il secondo film del regista Ari Aster, è tornato di moda parlare di “folk horror“, un genere cinematografico di nicchia  la cui definizione è tutt’oggi dibattuta; per film “folk horror” alcuni intendono film che evidenziano l’aspetto horrorifico del folklore, molti altri critici considerano invece come folk horror tutti quei film che in qualche modo mettono al centro il rapporto fra la psiche e il paesaggio, ma tutte queste sembrano definizioni estremamente vaghe, con articoli di esperti che sembrano far oscillare questa categoria fra l’horror psicologico e un qualsiasi film horror non ambientato in città.

Tuttavia tutti i blog/siti/articoli che se ne sono occupati sembrano concordare almeno sul fatto che tre film inglesi costituiscono la triade iniziale che in qualche modo ha definito il genere: Il Grande Inquisitore (Witchfinder General 1968), La Pelle di Satana (Blood on Satan’s Claw 1971) e The Wicker Man (1973).

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In tutti questi film gli elementi comuni sono l’inquietudine che si nasconde sotto l’apparente bucolica campagna inglese, il sottile confine tra ordine sociale e follia collettiva, la presenza di elementi che richiamano al paganesimo/superstizione/satanismo (a seconda del film in questione) ed infine il soprannaturale o il bizzarro. Da allora molti altri film o telefilm sono stati prodotti che hanno esplorato questi temi, per esempio The Witch (2015) di Robert Eggers  lo ha fatto egregiamente in salsa Sundance,  oppure l’inquietante serie anni ’70 Children of the Stones, l’horror folk è spesso presente inoltre  in episodi del Doctor Who, lo stesso Midsommar poi altro non è che una reinterpretazione di  The Wicker Man. Ma una delle serie TV che meglio ha imparato la lezione del genere trasportandolo però nel territorio meno minaccioso del giallo è stata l’Ispettore Barnaby che in inglese si intitola Midsomer (!!!!) Murders.

A ben guardare l’indiscusso protagonista del film è proprio il paesaggio inglesissimo dell’immaginaria comunità di Midsomer, una serie di paesini pittoreschi e apparentemente bucolici ma sotto la cui superficie scorrono potenti le forze oscure del caos, pronte a venire in superficie sotto forma di omicidi (spesso multipli per puntata) talmente efferati da risultare a volte grotteschi. Guardate e giudicate voi per esempio:

Gli ideatori della serie, che va avanti da più di 20 anni, sembrano aver ben appreso la lezione del folk horror e averla riproposta in una salsa più appetibile per la visione televisiva in prime time. A ben guardare infatti gli elementi originari ci sono tutti: l’apparente tranquilla campagna inglese come protagonista assoluta, le morti sanguinose,  la sostituzione dell’appartenenza ad un culto dei film originari in appartenenza a gruppi di appassionati di qualche hobby o particolare sottocultura esoterica. Non è raro infatti vedere il buon vecchio ispettore Barnaby indagare crimini nati fra appassionati di cricket, o fotografia naturalistica, coltivatori di rose o entusiasti di (immancabili) culti pagani.

Ma la più grande lezione del folk horror la serie l’ha imparata capendo che al centro della storia, nella migliore tradizione del genere, deve esserci l’atmosfera “eerie”, di mistero e inquietudine, che è di fatti la vera protagonista dello show, tanto da sopravvivere addirittura alla sostituzione del personaggio principale dopo 81 puntate (gli ispettori cugini Barnaby, interpretati da John Nettles e Neil Dudgeon sono più dei simboli, degli esempi di buonsenso inglese vecchio stampo, che rimangono ineffabili davanti al caos regnante sotto la superficie del rassicurante pub con il tetto impagliato).

Come se non bastasse, quasi tutti gli episodi dell’Ispettore Barnaby, prima di arrivare alla risoluzione del caso che ristabilisce l’ordine precostituito, sembrano spesso dei gialli soprannaturali conditi di dark humor con gli omicidi commessi che giocano con il concetto di assurdo e di “weird”, il bizzarro appunto, un altro degli elementi costitutivi del folk horror.

Arrivato alla ventunesima stagione l’Ispettore Barnaby rimane un fenomeno molto popolare, anche se lontano dai riflettori della critica “impegnata” che in questi ultimi anni si è affrettata a studiare i film con Vincent Price o Christopher Lee per poter commentare il lavoro di Ari Aster, di  Ben Wheatley o di Robert Eggers, ma ha forse dimenticato che film come The Wicker Man o Blood on Satan’s Claw erano film di basso budget, senza troppe  pretese di fare cinema con la C maiuscola, volti principalmente all’intrattenimento popolare, una tradizione che i produttori dell’Ispettore Barnaby sembrano aver capito molto meglio di tanti critici cinematografici.

 

 

 

 

Le migliori serie TV del 2019 (secondo noi)

Quali sono state le serie tv che ci sono piaciute di più nel 2019? Ecco una nostra lista che ha il pregio secondo noi di avere un occhio magari un po’ più personale di tante altre e il difetto di non avere una redazione di più persone che abbia potuto guardare tutto quello che circola in tv, quindi qualcosa mancherà di sicuro.

Speriamo però che arrivi a voi lettori un qualche suggerimento utile su uno show che magari vi è sfuggito.

La lista non è assolutamente in ordine di gradimento, quindi non è una classifica.

il manifesto è tutto un programma 😉

WATCHMEN (stagione 1)

Alan Moore ha da tempo abiurato gli adattamenti delle sue opere, adducendo ragioni artistiche, economiche e, in fin dei conti, politiche del tutto condivisibili. La DC lo ha praticamente dispossessato delle sue creature più celebri e ci ha fatto quel che voleva.

Ma come dargli torto? Il film omonimo di Zach Snyder del 2009 era ovviamente un’ombra imbarazzante della Graphic Novel del bardo di Northampton che, forse dovremmo ricordarlo, è stata il primo fumetto ad entrare nella lista delle opere letterarie più importanti in lingua inglese del New York Times ed a vincere un premio Hugo.

Però non ce ne vogliano Moore e Gibson, a noi questa prima stagione di Watchmen è piaciuta e parecchio, tanto da ritenere che sia la migliore serie tv su supereroi in circolazione. La trama è un puzzle che si compie inesorabilmente puntata dopo puntata, per arrivare ad un finale perfetto in cui tutti i pezzi si ricompongono. Bravo Damon Lindelof a finalmente dare una trama compiuta e sensata ad un suo show, e smentire le critiche di sceneggiatore che mette tanta roba al fuoco per poi non saper concludere (come perdonargli il finale di Lost?).

Altri punti di forza sono il cast: c’è Regina King fresca di Grammy per Seven Seconds; colonna sonora (Atticus Ross e Trent Reznor); e poi la sceneggiatura: l’episodio This Extraordinary Being, interamente girato in bianco e nero anche contro il volere della produzione, ci regala una delle Origin Story di super eroi più belle che siano mai state descritte. Da vedere nella speranza che continui così.

Toby Jones, ah ecco chi è!

Don’t Forget the Driver

Miniserie BBC in sei puntate passata un po’ sotto il radar che però è una bella riflessione sulla solitudine e sull’immigrazione nell’Inghilterra moderna che ha il pregio di parlare di temi attuali riuscendo a non citare mai la Brexit. Anzi, la cittadina di Bognor, sulla costa meridionale inglese, sembra essere intrappolata in una specie di atemporalità e nostalgia da cui i personaggi non riescono ad uscire (vedi ad esempio che musica ascoltano i protagonisti).

Barry, interpretato dal solidissimo Toby Jones, è un padre single autista di autobus turistici incapace di esprimere i suoi sentimenti e le sue aspirazioni, l’incontro con un migrante morto e uno vivo lo costringeranno ad uscire da questo guscio.

Viene classificata come commedia ma è una delle commedie più tristi che abbia mai visto, nella migliore tradizione della tv inglese. Non mancano tuttavia momenti alla The Office (UK) e Monty Python. Insomma una sorpresa inaspettata ed una serie altamente sottovalutata.

Teenagers disadattati

Looking for Alaska

Looking for Alaska è un uno strano esperimento che potremmo riassumere così: teen drama incontra un film indie.

La serie proposta da Hulu si apre con il classico ragazzetto  bello ma imbranato, con la strana fissazione delle ultime parole di personaggi famosi, che viene spedito dai genitori ad un’esclusiva scuola in mezzo alla foresta, un incrocio tra college e campeggio, qui viene subito a contatto con le classiche rivalità fra gruppi: ci sono i nerd poveri con borsa di studio che odiano i figli di papà ricchi atleti e stronzi che stanno con le cheerleader e viceversa. Fin qui niente di nuovo, scherzi reciproci, innamoramenti, chi va al ballo con chi blah blah, se non fosse che certe riprese controluce e certi tempi lenti non quadrano e man mano la storia si trasforma in qualcos’altro che non  ti aspetti diventando una riflessione sulla perdita e la crescita.

Unico punto debole. I due protagonisti che più che tipi da gruppo dei nerd appassionati di letteratura sono i classici modelli da copertina e delle volte, almeno agli occhi di chi guarda, risultano poco credibili.

The Deuce (terza stagione)

Francamente non capiamo come è possibile che The Deuce non sia un fenomeno di successo popolare alla Breaking Bad o simili, o meglio forse lo capiamo. Parlare di pornografia, droga e AIDS non è esattamente un buon viatico per le famiglie nostrane e americane. Ma The Deuce per la terza ed ultima stagione ci regala la conclusione di un affresco bellissimo della fine di un’era, quasi un’epica di coloro che, a New York a cavallo fra anni ‘70 e ‘80, vivevano per scelta o necessità ai margini della società in quel microuniverso chiamato The Deuce, nell’attuale midtown di Manhattan che oggi è il regno dei turisti giapponesi e che all’epoca era una zona  losca e pericolosa, con i locali a luci rosse, la prostituzione i bar aperti tutta la notte. La terza stagione chiude le storie dei personaggi principali e la fine di quella New York che forse non era un posto ideale ma era un posto vero fatto da persone vere. Via quindi i vecchi cumpà mafiosi italiani da Times Square, via le case malsane, via i malati di AIDS e i locali gay, via le prostitute affinché il progresso avanzi, affinché i soldi veri facciano piazza pulita. Niente più degrado e criminalità, che però viene semplicemente spostata altrove, ma un po’ di malinconia per tutti. Grande sceneggiatura di George Pelecanus (The Wire), per gli amanti di Scorsese e co. Da non perdere.

Masturbarsi fa diventare ciechi

Sex Education (Stagione 1)

Otis, un ragazzo con la madre che fa la consulente sessuale e che è talmente imbranato e complessato tanto da essere incapace a masturbarsi, incontra una ragazza a scuola, Maeve, che ha bisogno di fare soldi. Lei ha un’idea: vista la sua esperienza indiretta con la madre e la sua evidente sensibilità e intelligenza Otis può fare consulenze sentimentali/sessuali ai compagni di scuola. Funziona.

Tutto qui, niente di speciale, ma la serie è ben scritta, i personaggi mai banali, neanche quelli secondari,  l’ambiente scolastico risulta più naturale e realistico di tanti che ci vengono proposti sul piccolo e grande schermo, infine la chimica fra i due protagonisti, con la classica relazione tipo “si metteranno insieme?”  è ben equilibrata e funziona. Meno surreale di “The End of the Fuckin’ World” pur essendo una serie teen “alternativa” si può seguire anche senza essere fan di Wes Anderson.

Grazie a questa serie inoltre capirete che Gillian Anderson è molto meglio  come attrice comica, che per me è stata una rivelazione non da poco. Netflix ha confermato una seconda stagione.

Unbelievable

Questa serie Netflix ha fatto parlare molto di sé e a buona ragione, ispirata ad eventi realmente accaduti e riportati alla luce dal bellissimo articolo “An Unbelievable Story of Rape“, scritto da T. Christian Miller and Ken Armstrong, è stata creata e sceneggiata da  Susannah Grant, Ayelet Waldman e il grande romanziere Michael Chabon (il cui Le Avventure di Kavalier e Clay si vocifera potrebbe diventare presto una serie tv).

I fatti sono ispirati ad una serie di stupri avvenuti fra gli stati Washington e Colorado fra il 2008 e il 2011 e in particolare si concentrano su una delle prime vittime, interpretata alla grande da Kaitlyn Dever e alla successiva indagine svolta con poca attenzione e professionalità che si conclude con la vittima, Marie Adler, che ritira la denuncia. Marie è una ragazza che viene da una serie di esperienze traumatiche e la sua denuncia viene considerata inaffidabile, il pregiudizio, la scarsa attenzione dimostrata per questo tipo di crimine portano in pratica la Polizia a sottovalutare il caso. Ma gli eventi si svolgono in parallelo e descrivono insieme al caso di Marie Adler anche  l’indagine che si svolge anni dopo e che, grazie all’intervento di due detective più attente e sensibili, o semplicemente migliori dei colleghi che le hanno precedute, porteranno all’arresto del pericoloso stupratore seriale. Migliore True Crime dell’anno insieme a:

I am the Night

Miniserie in sei puntate ispirata al libro di memorie One Day She’ll Darken, di Fauna Hodel.

Hodel è la figlia naturale di George Hodel, il ginecologo/artista/eccentrico il cui nome più volte ritorna nelle indagini legate ad uno degli omicidi più famigerati della storia americana, quello della Dalia Nera.

La giovane Fauna (India Eisley) è una ragazza bianca che però crede di essere nera e cresce inconsapevole della sua vera identità e di chi siano i suoi veri genitori nell’America degli anni ’50 provinciale e razzista, finché un giorno scopre di essere in realtà figlia del misterioso jetsetter californiano George Hodel, ricco e chiacchierato mecenate artista che si circonda di una bizzarra e disturbante corte dei miracoli e coinvolto nelle indagini sull’omicidio di Elisabeth Short, ribattezzata dai tabloid dell’epoca la Dalia Nera. Respinte le sue richieste di chiarezza da parte dell’interessato, Fauna comincia ad indagare sul suo passato aiutata dal giornalista Jay Singletary, interpretato da Chris Pine, ma man mano che si avvicina alla verità si mette sempre più in pericolo.

Toni da hard boiled e inevitabili riferimenti a Ellroy,  festini eccentrici, incesti e assassini perversi nell’ombra. Come perderselo?

The mandalor… ah no.
The Mandalor… ah neppure
The Mandalorian!

The Mandalorian

The Mandalorian è una serie in 8 puntate ambientata nell’universo di Guerre Stellari e, per chi scrive, è la cosa migliore del franchising  uscita negli ultimi anni. La dilatazione dei tempi e la possibilità di lasciar respirare l’arco narrativo permettono a questa saga stellare di uscire dal solito luogo comune robot- esplosioni – mostriciattoli, con toni da videogioco anni ‘80 tipico dei film di Lucas, mescolando bene azione, spettacolo e caratterizzazione dei personaggi ed è inoltre girata con una qualità quasi cinematografica. Ambientata qualche anno dopo la fine della trilogia originaria The Mandalorian altro non è che un western vecchia maniera con il cowboy eroe solitario di frontiera, che fa il cacciatore di taglie, ma che sulla sua strada incontrerà un piccolo Yoda e si scontrerà con nostalgici contro-rivoluzionari che tramano affinché la Repubblica, che non sembra particolarmente entusiasmante, cada. Da non perdere anche se non amate Guerre Stellari.

Gentleman Jack

L’eccellente Sally Wainwright, dopo il bellissimo Happy Valley, torna nel nativo Yorkshire per raccontarci però una storia vittoriana ispirata ai diari di Anne Lister, donna di famiglia benestante che, in un periodo in cui il massimo del femminismo è Orgoglio e Pregiudizio (che è già qualcosa), invece di aspettare il principe azzurro si dà da fare per gestire le miniere di famiglia e contrastare i prepotenti di turno senza mai farsi mettere i piedi in testa destreggiandosi intanto anche nella sua vita sentimentale e facendo strage di cuori, di altre donne. Anne Lister infatti non nasconde le sue inclinazioni omosessuali che non diventano scandalo aperto nella sua cerchia sociale solo perché il suo essere una personalità formidabile la pone ambiguamente al di sopra delle convenzioni accettate dalla rigida campagna inglese del XIX secolo, anche se non sempre tutto fila liscio.

Il risultato è un brillante feuilleton avventuroso sentimentale che ricorda molto Poldark ma che è recitato molto meglio e si prende meno sul serio.

Da menzionare poi velocemente:

What We Do in the Shadows: Il brillante film parodia omonimo di Taika Waititi del 2014 è stato adattato a serie tv. Un mockumentary horror comedy con momenti esilaranti.

Brooklyn Nine-Nine: provateci voi a fare una sitcom che funziona per 10 stagioni.

Blue Bloods: il repubblicano che è in me pensa che sia il migliore cop-show in circolazione.

The Virtues: non è This is England, ma è sempre Shane Meadows ed il solito grande Stephen Graham.

The Spy: per chi attende con ansia Homeland, una spy story ispirata ad una vicenda vera, in cui Sacha Baron Cohen dimostra di essere un grandissimo attore.

Le migliori serie tv del 2018

E’ venuto quel momento dell’anno…

quello in cui si tirano le somme del mondo delle serie tv e si fanno le listone. Il web ne è pieno e senz’altro ce ne saranno molte e molto più autorevoli di questa.

Però se cercate un punto di vista un po’ originale e puramente basato sul gusto di chi scrive e magari sperate di scoprire una qualche gemma nascosta che vi era sfuggita, questo è il post(o) per voi. Quindi qui non ritroverete le varie Better Call Saul, This is us, Disenchantment etc. che popolano tutti i post natalizi, ma una scelta un po’ più particolare e personale.

Le serie 10 serie tv che abbiamo selezionato sono a parere nostro tutte ottime e l’ordine è puramente  numerico e non rappresenta una classifica:

The Little Drummer Girl (Florence Pugh)

The Little Drummer Girl (BBC One)

Da un capolavoro del più grande scrittori di libri di spionaggio, John Le Carré, una miniserie in 6 puntate  diretta dal regista cult coreano ParK Chan-Wook (Old Boy, Lady Vengeance). Europa fine anni ’70,  Charmian Ross è un’attrice del giro dei piccoli teatri, avendo simpatie radicali pro-palestina e una rabbia profonda inespressa, viene contattata da un gruppo del controspionaggio israeliano per infiltrarsi come ex amante del fratello di un elusivo e mitico capo della resistenza palestinese. Gadi Becker sarà il suo istruttore e il gioco della finzione si mischierà alla realtà lasciando gli attori di questa vicenda confusi e incerti sulla propria identità e le proprie lealtà. Un capolavoro di ambiguità impreziosito dall’ottima regia di ParK Chan-Wook che riesce a fondere il suo gusto cromatico senza mai tradire l’estetica da guerra fredda dei classici dello spionaggio. Un gruppo d’attori tra cui il solito e solido Alexander Skarsgård, il come sempre eccezionale Michael Shannon e un’ottima Florence Pugh, che avevamo già apprezzato in Lady Macbeth.

Seven Seconds

Seven Seconds (Netflix)

Veena Sud (The Killing, Cold Case) ci regala una versione moderna di delitto e castigo. Un poliziotto investe per sbaglio un ragazzino in bici e lo uccide, i  colleghi della sua squadra arrivano sul posto e decidono di insabbiare tutto. Questo è solo l’inizio di una discesa nel Maelstrom che porterà allo sfaldamento di relazioni, amori e amicizie e ad eventi tragici e drammatici inevitabili in una serie di dieci puntate che potremmo definire dramma procedurale. Regina King si è presa un Grammy per la sua interpretazione della madre del ragazzo morto. Seven Seconds è forse un po’ lento ma vale assolutamente la pena.

Hill House (Netflix)

Fare una serie da questo classico dell’horror (L’incubo di Hill House in inglese The Haunting of Hill House di Shirley Collins del 1959) era piuttosto difficile.  Il materiale di partenza è molto elusivo, il libro è una serie di suggestioni e incubi tutti psicologici alla Edgar Allan Poe o H. P. Lovecraft dove succede assai poco, eppure Mike Flanagan, che ha scritto e diretto la serie, riesce a inserire una trama interessante in cui la casa infestata dagli spettri diventa protagonista. La storia di Hill House è la storia di una famiglia che si reca in una imponente quanto misteriosa casa, qualcosa di terribile accadrà e i familiari superstiti pagheranno per il resto della vita: personalità distrutte, rapporti disfunzionali e nevrosi porteranno tutti sull’orlo del baratro… ma qualcosa cambia all’improvviso, la casa li reclama… La serie, pur essendo un dramma familiare, riesce sempre a mantenere l’atmosfera gotica e inquietante che si addice ad un film di fantasmi, ci sono anche un paio di jump scare niente male.  La presenza di Timothy Hutton è la testimonianza che non sempre ripescare il vecchio attore famoso e dimenticato funziona.

Atlanta (FX)

arrivata alla seconda stagione, questa serie ideata e recitata da Donald Glover (Spiderman: Homecoming, Solo: A Star Wars Story) è un animale raro e prezioso: un po’ drammatica, un po’ commedia, un po’ serie musicale. Earn, il protagonista, lascia Princeton per ragioni mai spiegate, non avendo soldi o un lavoro (era entrato a Princeton grazie ai suoi ottimi risultati scolastici ma proviene da una famiglia piuttosto modesta) decide di offrirsi come manager del cugino, un rapper che si fa chiamare “Paper Boy” e che sta riscuotendo sempre più successo. La vita non è facile, inoltre Earn ha una figlia da mantenere, ma giorno dopo giorno cerca di farsi valere in uno show business che rimane sempre ancorato a visioni razziste e stereotipate. La forza di Atlanta , oltre alla costruzione di personaggi memorabili, viene dalla capacità di scrittura eccezionale di Glover,  la sceneggiatura di alcune puntate della seconda stagione raggiunge livelli altissimi (FUBU e Woods sono veramente ammirevoli) e i personaggi man mano che vanno avanti acquistano sempre più spessore e colore. La sequenza surreale nella “frat house” vale tutta una serie:

Cobra Kai (YouTube)

Si può tornare dopo 34 anni e toccare un film di culto come Karate Kid senza sfigurare? Assolutamente sì.
Daniel è ormai un uomo di successo, vende macchine e negli spot fa ancora pesare la sua gloria passata. Johnny Lawrence, il cattivo biondo rappresentante del dojo Cobra Kai che Daniel ha sconfitto con la famosissima mossa della gru, è un fallito che beve, ha perso la famiglia e non riesce a tenere un lavoro per più di sei mesi. L’incontro fortuito tra i due riaccende una scintilla, dopo tutto sia Daniel che Johnny vivono in un passato nostalgico e glorioso. Ma il rifondare il dojo Cobra Kai per Johnny sarà un’occasione di riscatto umano e sportivo in una sfida che stavolta si presenta quasi a parti invertite. Twist nel finale di stagione che ci ha lasciati impazienti di vedere la seconda. Divertente, commovente, convincente: Strike first, Strike hard, NO MERCY!

Sharp Objects

Sharp Objects (HBO)

Una miniserie in 8 puntate che è un thriller scuro e inquietante permeato da atmosfere che un tempo si sarebbero chiamate da “gotico sudista” alla William Faulkner. Camille Preaker, interpretata da una grande Amy Adams (Big Eyes, Man of Steel) figlia di una famiglia del potente e tradizionale sud si è ormai emancipata e vive a Saint Louis facendo la giornalista. L’infanzia e l’adolescenza segnate da una madre ingombrante, la morte della sorella e abusi sessuali hanno portato Camille a compiere atti di autolesionismo e alcolismo. Tutto ritorna a galla quando viene spedita nella sua città natale nel profondo sud del Missouri agricolo, ad indagare sulla misteriosa morte di un’adolescente. Il mistero si infittirà e si intreccerà con il passato di Camille, la sua storia familiare e la storia della sua città natale, la violenza e la morte cominceranno a stringere un cappio sempre più stretto intorno alla protagonista che farà i conti con un segreto indicibile. Bellissima colonna sonora a base di Led Zeppelin.

The Terror (AMC)

The Terror è una serie che va a riempire quel vuoto lasciato da film come master and Commander. Si tratta di una serie di 10 episodi La serie è basata sul romanzo del 2007 La scomparsa dell’Erebus (The Terror) di Dan Simmons, ed è ispirata la storia vera delle navi inglesi Terror e Erebus rimaste intrappolate nei ghiacci nel tentativo di trovare il mitico passaggio a nord ovest. Così come il romanzo tenta di riempire gli aspetti non documentati e inspiegabili della scomparsa anche la serie immagina una narrativa collettiva e umana di discesa verso la consapevolezza che non vi è più scampo. Alcuni reagiranno stoicamente, altri impazziranno, altri tenteranno di rimanere aggrappati alla vita fino alla fine. The Terror funziona perché mette a nudo ritratti umani che si confrontano con una natura imponente, impenetrabile e misteriosa. Qualche tocco di gotico/horror forse un po’ forzato, ma un bellissimo racconto di avventura. Rinnovata per una seconda stagione che sarà ambientata, coerentemente con il suo spirito antologico, durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

The End of the Fucking World (Netflix)

8 puntate della durata di circa 20 minuti ciascuna. Una commedia romantica intrisa di humor nero, i due adolescenti protagonisti sono James, un sociopatico con tendenze omicide, e Alyssa, una mezza pazza instabile. Il loro incontro potenzialmente esplosivo li porta ad una specie di road trip sulla costa inglese alla ricerca del padre di lei. La ricerca è una scusa per lasciare le loro odiose e noiosissime vite, ma nella loro folie a deux si intravede uno spiraglio di logica e un’insospettabile storia d’amore. Musica e stile dirette evidentemente ad un pubblico molto giovane, ma non male anche per i più grandi.

Glow (Netflix)

Un’altra serie Netflix e un’altra serie alla seconda stagione: Glow, acronimo di Gorgeous Ladies of Wrestling. Siamo a Los Angeles nel 1985, un gruppo di attrici e lottatrici più o meno improvvisate e più o meno improbabile sta lavorando al proprio show sul wrestling femminile. la scommessa è ardita e le tensioni fra le protagoniste, le due principali hanno avuto dissapori di origine “sentimentale”, non aiutano. Trovare sponsor e pubblico è complicato, ma proprio la rivalità fra le due, sublimata dai loro alter ego sul ring, diviene una potente  dinamica narrativa che darà una forma al loro spettacolo. Una commedia che fa sorridere più che ridere e che conferma un’ottima seconda stagione dopo la già entusiasmante prima. Alison Brie spicca su tutte/i.

The Deuce (HBO)

Arrivata alla seconda stagione, ambientata 5 anni dopo la prima, questa serie non perde colpi. The Deuce è il tratto di New York della 42a strada dove dal dopoguerra fino agli anni ’80, grazie alla presenza di cinema a luci rosse e prostituzione, si crea un vero e proprio universo fatto di personaggi strambi ed eccentrici, lavoratori dell’industria del sesso, scoppiati, artisti e avventurieri vari. Nella seconda stagione si narra l’ascesa dell’industria del porno e i primi tentativi della normalizzazione dell’area. Ormai siamo in piena esplosione Disco, la seconda stagione di  The Deuce segue una galleria di personaggi, protettori, prostitute, imprenditori e mafiosi che avevamo già incontrato nella prima stagione. Candy è ormai un’affermata regista di porno e cerca attraverso questa passione il riscatto sociale e personale, Vince è un imprenditore di successo con le mani in pasta con la mafia, Lori è diventata una starlette del cinema per adulti, Abigail ha sviluppato una coscienza politica che la spinge a battersi coerentemente con i suoi ideali progressisti e femministi. New York alla fine di un’era, echi di Scorsese e dei Ramones. Se avete amato i Sopranos o Boardwalk Empire, non potete non seguire questa serie.

 

Menzione d’onore. The City & the City (BBC 2)

In verità questa è un’aggiunta fatta un paio di settimane dopo l’uscita dell’articolo perché non poteva rimanere fuori da questo post una delle serie più interessanti dell’anno, basata sul romanzo di China Mieville, scrittore britannico molto amato fra gli appassionati di letteratura weird, The City and the City è una miniserie moto ben costruito. Si tratta di un detective noir abbastanza classico, se non fosse che si svolge in una città divisa in due da antichi a misteriosi tabù, sui quali veglia una misteriosa forza di polizia. Una città divisa in due città spesso l’una accanto all’altra, che si ignorano o che si accavallano, nella quale un delitto di una giovane donna costringe l’ispettore Tyador Borlú (grandissimo David Morrissey) ad indagare e superare anni di reciproca diffidenza, un grande hard boiled in chiave fantascientifica che non deluderà.

 

 

 

 

Star Trek Discovery? Meglio The Orville.

Ora che è finita la prima stagione di Star Trek: Discovery è tempo di bilanci.

Erano anni che appassionati trekkari e non, aspettavano un ritorno sul piccolo schermo della serie iconica e finalmente CBS si è decisa a produrre uno show di 15 puntate. L’eccitazione per una nuova stagione di Star Trek  nell’epoca forse migliore della tv episodica è stata evidente sin dall’inizio, i produttori promettevano un livello narrativo all’altezza di Game of Thrones o Breaking Bad, un romanzone complesso e adulto molto ambizioso.

Devo ammettere che il fatto che Alex Kurtzman fosse fra i creatori però non prometteva benissimo, Kurtzman appartiene alla scuderia di JJ Abrahams e compagni, uno dei gruppi di sceneggiatori più sopravvalutati del momento, l’uscita anticipata dal gruppo di produttori di Byran Fuller, che decideva di dedicarsi di più ad American Gods, poi non prometteva bene.

Eppure, come migliaia di patiti di Star Trek, ho aspettato fiducioso l’inizio della serie: dopo i primi due episodi mi sono detto, “vabbé diamo tempo di carburare”, poi  dopo il mid-season finale  mi sono detto “vediamo dove vuole andare a parare”. Con il finale di stagione quelli che erano dubbi sono diventate delusioni conclamate.

Attenzione (seguono spoilier)

ST:D non è un cattivo show di fantascienza, è una serie di SF piuttosto mediocre  con buoni momenti qui e lì, ma è decisamente un pessimo show di Star Trek.

Non voglio nemmeno entrare nella polemica tra fan tradizionalisti e non, che litigano sui blog e forum da mesi sulla totale incoerenza di ambientare la storia 10 anni prima della serie originale per praticamente presentare un universo totalmente diverso da quello tradizionale. Di solito, Abrahams, Orci, Kurtzman e soci risolvono queste questioni inventandosi una dimensione alternativa, qui non si sono neanche degnati di ricorrere a questo trito trucchetto da quattro soldi (in parte…).

Il problema più grande di Star Trek: Discovery, è un altro, un’enorme superficialità di trama, tutta basata su soluzioni e colpi di scena che sembrano forzati e mai adeguatamente maturati nel corso della narrazione: un ammiraglio nel corso di una sola puntata può passare dal tentato genocidio di un pianeta ad appuntare medaglie su coloro che lo hanno sventato, con relativa sviolinata di una retorica francamente imbarazzante, per contenuti e metodo di presentazione filmica. Si può risolvere una guerra interplanetaria come niente fosse o come se non fosse mai avvenuta con un drone  e andare sul pianeta Klingon in piena guerra con nessuno che si fa problemi. Un personaggio può essere mezzo Klingon e mezzo umano senza mai farci capire effettivamente come tale fusione sia potuta accadere. Personaggi vengono uccisi ” a buffo” altri resuscitati a forza grazie a… indovinate… gli universi alternativi. In generale la tempistica e lo sviluppo della narrazione sembrano sempre goffi e rallentati in  alcuni punti per poi essere frettolosamente chiusi in altri. Fra esplosioni e colpi di scena sembra di stare in un film di Michael Bay che dura 15 ore.

Klingon????

L’altro grande problema relativo alla serie, sembra la scarsa profondità di caratterizzazione dei personaggi. Di solito la tecnica è quella di caratterizzarli fortemente i primi 10 minuti che vengono presentati al pubblico, e poi ogni coerenza tende a sfilacciarsi per adattarsi a qualsiasi situazione gli sceneggiatori abbiano inventato, questo vale per Sarek, che alla fine dello show sorride, tocca e scherza con la sua figlioccia come un umano qualsiasi oppure per la cadetta Silvia Tilly, che alla 4 puntata forse dimentica di avere disturbi di personalità e diventa una specie di simpatica nerd al college e, a parte Saru (l’unico personaggio con un certo spessore), dimenticate il tradizionale approccio collettivo alla narrazione, pieno di sottotrame e caratterizzazioni dei personaggi “minori”, questo Star Trek: Discovery non ha tempo per questo, è troppo impegnato a sconfiggere Imperi in universi alternativi nel giro di tre puntate, viaggiare nello spazio tempo con fantomatiche spore in due puntate e vincere guerre galattiche in una.

Infine, poi onestamente Sonequa Martin-Green non è che sia il massimo della recitazione, quando in particolare (in lingua originale) comincia a bisbigliare invece di parlare l’ammazzerei con la Bath-Leth. Nel cast, gli unici degni di nota mi sembrano Doug Jones e Rainn Wilson (nei panni di Harry Mudd, l’unico bagliore di luce in un panorama narrativo molto grigio).

Un gruppo di produttori mediocri e senza idee si è praticamente appropriato con l’inganno di una nave della Federazione, cercando di convincerci che la modernità e il futuro sono più stupidi e superficiali del presente, esattamente il contrario di tutto ciò che l’universo di Star Trek ha sempre rappresentato. Francamente se avete voglia di Star Trek guardate The Orville, una vera e propria lezione di scrittura intelligente e non presuntuosa.

American Gods: una recensione controcorrente

Tutti sembrano pazzi per lo show American Gods della Starz, ma non tutto sembra funzionare bene nella serie ispirata al celebre libro di Neil Gaiman.

Non voglio neanche stare a paragonare il libro con la serie. Il romanzo di Neil Gaiman fu un unicum quando uscì, la sua vena ironica, il mix di cultura pop e miti religiosi comparati, ma soprattutto l’originale rappresentazione umana e fruibile degli dei alla base del libro (e di molti dei suoi lavori sin dai tempi di Sandman), ne decretarono il successo e diedero un aspetto più cool e hipster al romanzo fantasy. In seguito, forse questo mix è stato usato e abusato, da lui ed altri, diventando una formula un po’ stantia…Ma questo è un altro medium e un’altra storia.

La serie Starz American Gods viene recensita in termini entusiastici un po’ dappertutto, specialmente da quella stampa e da quei blog specializzati e appassionati del genere, mentre altri giornali più mainstream, come il New York Times per esempio, forse con una base di lettura con meno fanboys e fangirls, ne hanno colto alcuni elementi interessanti e critici.

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Quello che notiamo se prendiamo in considerazione la serie tv sola, tenendo a bada l’ammirazione per il lavoro di Gaiman, è che la storia è un mix che non sempre si capisce dove vuole parare e fra digressioni e scene spesso totalmente gratuite, fatte più per compiacere l’occhio che per funzioni narrative, prende forma solo alla fine della prima stagione.

Shadow Moon è un carattere scialbo, Odino/Mercoledì avrebbe avuto bisogno di un attore molto più carismatico del pur volenteroso Ian McShane, i personaggi più interessati sono personaggi secondari, come Laura Moon (se si riesce a perdonare l’espressività da selfie instagram di Emily Browning) e il Leprecauno dell’ottimo Pablo Schreiber. Ovviamente questo porta alle lunghe digressioni sulla loro ‘backstory’ cha a tratti hanno un po’ fatto perdere il filo del discorso. Inutile dire che, essendo una serie Starz, vi è spesso violenza e nudità gratuita più da Grinderhouse movie tarantiniano che altro, ed un utilizzo della musica sempre a contrasto che dopo un po’ stucca.

Il Dio della tecnologia, nel libro è grasso, ma alla Starz è vietato essere grassi
Il Dio della tecnologia, nel libro è grasso, ma alla Starz è vietato essere grassi!

Eppure i segnali di qualche difficoltà a trovare il bandolo narrativo c’erano tutti, lo show ha subito una lunghissima gestazione con diversi cambi allo script e inizialmente doveva essere HBO, il nostro prima articolo a riguardo risale addirittura al 2011. Certo non era un compito facile quello di Bryan Fuller e Michael Green, il libro è un cult e ha un’atmosfera difficile da cogliere, ma verso la fine della stagione si è cominciata a vedere una certa coerenza e si spera che la Starz non voglia strafare tirandola per le lunghe e concluda l’arco narrativo in massimo tre stagioni. Del resto l’universo di American Gods può essere sfruttato per molte side stories come ha dimostrato lo stesso Neil Gaiman publicando ad esempio The Monarch of the Glen in Fragile Things. La possibilità di spinoff c’è tutta, che ne pensate?

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Toni Basil è viva e lotta insieme a noi

Alcuni giorni fa qualche blog ha dato la notizia della morte di Toni Basil, il nome suonava vagamente familiare ma non riuscivo a ricordare perché lo conoscevo. Dopo una veloce ricerca su internet tutto mi è stato chiaro: Toni Basil (in arte Antonia Christina Basilotta) era stata una cantante ballerina che aveva raggiunto un successo di livello mondiale grazie al singolo del 1982 “Mickey”.

La canzone, ed il video che la accompagnava, era stata un vero e proprio tormentone di quell’anno, trasmessa in radio ossessivamente e con un video che la neonata MTV passava in continuazione.

Il video e la canzone erano un vero e proprio stereotipo degli anni ’80. Finti musicisti, uno finto punk, uno finto boh, un finto Mario Bros (!!!) e un altro un po’ rockettaro fingevano di suonare , in verità non in maniera molto convinta, poiché erano più intenti a svolgere una coreografia danzante fatta di movimento e energia intorno alla figura di Toni Basil, vestita in gonnellino da cheerleader tutta smorfie e sgambettamenti. Il coro iniziale, il ritmo ammiccante e la voce un po’ da ragazzina della Basil , nonché la coreografia danzata del video, fecero di “Mickey” una vera è propria base per i futuri successi pop. In pratica gran parte dei video degli ultimi anni di artiste come Britney Spears, Katy Perry, Ariana Grande e via dicendo si basa su uno stile non molto dissimile.

L’immagine che la cantante ballerina di Philadelphia dava di sè era quella estremamente sessualizzata alla quale ci siamo poi totalmente abituati negli anni a venire, oltre al richiamo del costume da adolescente, la coreografia era talmente ammiccante da arrivare al punto che il tizio vestito tipo Mario Bros si mette a suonarle il culo come se fosse uno xilofono. Tutto normale, erano gli anni ’80! Le donne potevano smettere di manifestare e tornare ad essere quello che gli uomini avevano sempre desiderato, delle ragazzine stupidine buone solo a mettere in mostra il proprio corpo. Dopo tutto i ’70 erano stati pesanti  e tristi, uno voleva un po’ di leggerezza no?

Nonostante questa scelta da starlette adolescenziale,  la Basil non era l’ultima arrivata, ai tempi di “Mickey” aveva quasi 40 anni, aveva partecipato a progetti cinematografici e musicali i tutto rispetto, collaborando con Talking Heads oppure Francis Ford Coppola, solo per citare due nomi, inoltre era considerata una delle ballerine responsabili di aver portato la street dance all’attenzione grande pubblico. Il fatto che non si opponesse alla mascherata di questo video indicava che all’epoca la sensibilità rispetto alla sessualizzazione della donna era forse cambiata anche se, nel caso specifico della Sig.ra Basilotta, indicava forse quell’atteggiamento comune fra chi fa del proprio corpo una forma d’arte a considerare la sperimentazione e l’uso di quello che si fa come territori da riscoprire.

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Di quel video, che portò ad un successo impressionante il singolo, molti discografici hanno copiato la struttura, motivetto orecchiabile, vocetta da cretina, donna oggettificata che fa mosse ammiccanti, ritmo ballabile. Oggi il dibattito su questo tipo di video vede un approccio anche originale, in cui alcuni sostengono che certe espressioni sono anche “girl empowering”, un forte esempio è quello di Beyoncé di Run the World (Girls), ma per un esempio del genere, sul quale però si dovrebbe aprire un dibattito sullo stereotipo estetico comunque resistente, vi sono cento canzoni e video in cui le donne sono presentate come delle bambine stupide ad uso e consumo della libido maschile. Dopo più di 40 anni dall’uscita di “Mickey” quindi l’eredità della Basil è viva e vegeta nella cultura pop mondiale, nel bene e nel male.

Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che forse per comprendere bene il nostro oggi bisogna riflettere su quanto esso sia radicato negli anni ’80, culturalmente, esteticamente e politicamente,  o forse la malizia è negli occhi di chi guarda, la questione non ce l’ho, ma la domanda ve la pongo lo stesso.

 

Constantine cancellato: ennesima débacle per la tv di genere su un grande network

Come abbiamo già scritto in passato, Constantine non sarà l’ideale per i fan del fumetto Hellblazer ma è meglio di niente. Purtroppo questo show sviluppato da David S. GoyerDaniel Cerone e interpretato da Matt Ryan (una delle poche cose buone dello show) nella parte del mago, ex punk, stregone, re del sarcasmo John Constantine, chiuderà i battenti, la NBC ha detto la parola fine alla serie.

Sin dall’inizio Constantine ha avuto problemi, con un pilota che ebbe una sterzata brusca nel finale a causa di un cambio di coprotagonista fra la prima e seconda puntata. Poi ha stabilmente e costantemente perso spettatori. Non c’è da stupirsi: come molti commentatori avevano notato, Constantine sembrava essere la versione cupa, angosciante e anche meno glamour di Supernatural. La NBC si aspettava forse un successo simile, ma non ha fatto i conti che show come Supernatural o Vampire Diaries fanno leva su un pubblico pressoché adolescente e sono estremamente più semplici e accattivanti. Constantine, nella sua versione banalizzata ed edulcorata dell’originale personaggio creato da Alan Moore, era un po’ troppo né carne né pesce. Una via di mezzo che non andava nella direzione commerciale voluta dalla NBC e neanche nella direzione cult che avrebbe potuto attrarre i tanti fan del fumetto.

Forse uno show come Constantine sarebbe stato meglio su un canale via cavo che su uno dei network principali, dove gli ascolti grossi vengono dai procedurali e dalle sitcom e dove il pubblico potrebbe non essere preparato a serie gotiche che non siano almeno un po’ glitterate, e forse questo potrebbe accadere, stando al tweet di Cerone:

Constantine tweet

Quindi l’autore spera ancora in una salvezza dello show presso un altro canale. Io personalmente non sono più riuscito a seguirlo dopo la quarta, quinta puntata. Per me John Constantine è e rimane quintessenzialmente britannico, con tanto di case di Crowley, Hooligans posseduti, Ley Lines da difendere e la Londra misteriosa e sotterranea dal fascino innegabile.

Justified- Un finale epico

Justified è un’idea della Fx nata in sordina sei anni fa. Ispirata da un racconto intitolato Fire in The Hole, scritto da Elmore Leonard, ottimo scrittore di western e polizieschi, forse uno dei migliori degli ultimi anni.

All’inizio non era chiaro dove volesse parare la serie: un agente federale dal grilletto facile e i modi all’antica, un criminale dalla parlantina sciolta e dall’ambizione sovrumana, vecchi ricordi, le montagne degli Appalachi. Poi, puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, questa serie è diventata uno dei miei appuntamenti preferiti. Non si trattava solo della storia epica di amicizia e odio tra due vecchi amici che tentavano in modi diversi di lasciarsi alle spalle il loro passato di bianchi poveri e bifolchi, ma di dialoghi brillanti e gallerie di umanità varia mai descritta in maniera superficiale, anche quando si trattava di personaggi secondari. Justified è quello che si può definire una serie cult, ovvero una serie di ottima fattura meno popolare di quello che meriterebbe. 6 stagioni di poliziesco tirate, divertenti e mai noiose. Il finale non ha tradito le aspettative, raggiungendo un climax umano, psicologico e adrenalinico che poche serie hanno potuto vantare. Justified è finito da poche settimane, fatevi un favore, appena potete guardatela, ma in lingua originale magari con i sottotitoli, il linguaggio è fondamentale.

Fatevi un altro favore, appena andate in livreria date un’occhiata ai libri di Elmore Leonard, scomparso da poco. Un ottima lettura per questa estate.